Il generale giapponese Nogi Maresuke fa seppuku (cioè il suicidio rituale noto in Occidente come hara-kiri) il 19 agosto 1912. Era nato samurai e per ben due volte si era trovato a dover combattere contro i suoi confratelli di casta e di clan che si erano ribellati all'Imperatore. Quel sangue versato gli aveva creato un complesso di colpa che era poi andato crescendo sino ad assumere le proporzioni di una vera e propria ossessione, quando aveva guidato la Terza Armata durante l'assedio di Port Arthur nel 1904, durante la guerra russo-giapponese. La conquista di Port Arthur era stata ottenuta a prezzo di un'ecatombe ed era toccato a Nogi l'incombenza di spedire le truppe al massacro. Il figlio maggiore era morto da poco in combattimento, e il secondo era caduto sul campo mentre lui guidava i primi forsennati, vani, rovinosi attacchi frontali contro le difese russe. La sua richiesta di essere esonerato dal comando era stata respinta dall'Imperatore e lui aveva continuato a spedire i suoi uomini alla morte fino a che Port Arthur non cadde, al prezzo di 110.000 caduti giapponesi.
Ma tutto quel sangue, dei suoi due figli e delle altre migliaia di giovani che i suoi ordini avevano condannato, gli gravavano addosso. Aveva continuato a vivere in obbedienza all'ordine dell'Imperatore: ma, quando il suo divino sovrano era morto, si era sentito libero dal suo giuramento e, nello stesso momento in cui il corteo funebre lasciava il Palazzo, si era aperto il ventre con il suo pugnale da samurai, prima da sinistra a destra e poi dal basso verso l'alto, infine lasciandosi cadere sulla punta della sciabola.
Cinque anni più tardi, a decine di migliaia di chilometri, un altro generale responsabile di cruenti massacri, il Capo di stato maggiore dell'Esercito italiano durante la Grande guerra Luigi Cadorna, avrebbe meditato ugualmente di togliersi la vita, ma ne sarebbe stato dissuaso dall'apparizione miracolosa di un frate a quel tempo sotto le armi a Napoli, registrato al locale distretto militare come "Francesco Forgione, classe 1887, matricola 12.904".
Quest'episodio è tornato a galla in occasione della beatificazione di Padre Pio. La notizia era stata riferita dalla stampa e dalla pubblicistica d'occasione con il tradizionale uso dell'indicativo presente (destinato - come leggo nella mia vecchia Grammatica della Lingua Nazionale Italiana di Alessandro Bertrand - ad "affermare la realtà con certezza assoluta"), ma con qualche variante sia sulla data esatta (30 ottobre o 9 novembre 1917) sia sulla sua fonte (lo stesso generale Cadorna, come insinua Panorama, oppure il commilitone generale Osvaldo Roncolini, supportato dalle "cronache del tempo", come sostiene il suo ultimo biografo Enrico Malatesta).
Dettagli che mi ripropongo di approfondire, ma che non intaccano il nocciolo della questione, confermata autorevolmente sia dal cardinale Giuseppe Siri in occasione della celebrazione del quarto anniversario della morte del frate di Pietrelcina, il 23 settembre 1972 nella chiesa di S. Caterina a Genova (discorso poi pubblicato su Liguria Francescana con il titolo "IV anniversario del transito di Padre Pio"), sia nel volume di Fernando Da Riese Padre Pio da Pietrelcina crocifisso senza croce, pubblicato nel 1975 a cura della Postulazione generale dei Cappuccini con il nihil obstat della SC pro Causis Sanctorum e con l' imprimatur del Vicariato Urbis.
Ecco come l'episodio è riferito, appunto, nel volume dei Padri Cappuccini: "Una notte del novembre del 1917 dopo la disfatta di Caporetto, il generale Luigi Cadorna, comandante supremo dell'esercito italiano nella prima guerra mondiale, in momenti di sconforto per esser stato sostituito nel comando supremo dal generale Armando Diaz e per vedere intaccato il proprio operato militare da indecorosi commenti, in una città del Veneto, vide dinanzi a sé un frate. L'aveva preceduto un acuto profumo di rose e viole. Aveva le mani sanguinanti e uno sguardo dolce. Lo esortò a stare tranquillo. Lo convinse a deporre la pistola e a non compiere un gesto insano da disperato. Il generale, che non aveva mai visto padre Pio, riferendo i particolari dell'accaduto, si sentì dire che quel frate presente nel suo studio, altri non poteva essere che lo stimmatizzato di S. Giovanni Rotondo. Gli nacque il desiderio di rivederlo. Nel 1920 partì verso la cittadella pugliese. Nessuno sapeva di quella visita. Restò quindi meravigliato quando, giunto con la corriera nella cittadella garganica, si sentì dire dai cappuccini che padre Pio l'attendeva. Il Padre fu subito riconosciuto dal generale: "È questo il frate che è venuto da me!" Il Padre si fece ancor più conoscere, ricordandogli: "Generale, l'abbiamo passata brutta, quella notte!""
Per la verità le stimmate, secondo la cronologia ufficiale, sarebbero apparse solo il 20 settembre 1918, vale a dire dieci mesi dopo l'apparizione: ma il punto non merita eccessiva attenzione, sia perché non è detto che l'immagine della bilocazione debba essere la fotocopia fedele del personaggio in quel preciso momento, sia perché il lungo periodo trascorso fra l'episodio e la decisione di Cadorna di recarsi a trovare il frate può aver provocato qualche confusione sui dettagli del "miracolo" nel ricordo dello stesso generale oppure nella sua ricostruzione agiografica.
L'interesse a proposito di quanto sarebbe accaduto durante quella notte triste del novembre 1917 risiede infatti altrove e riguarda, prima ancora che padre Pio, il personaggio del generale, che in tutte le ricostruzioni viene lasciato invece pudicamente in ombra, accasciato sotto il peso degli "indecorosi commenti" che ne avrebbero macchiato l'onore di capo militare. Ma chi era esattamente il generale conte Luigi Cadorna, Capo di stato maggiore dell'Esercito durante i primi due anni e mezzo della partecipazione italiana alla Prima guerra mondiale? E che cosa aveva fatto per tirarsi addosso quegli "indecorosi commenti"?
Il generale d'armata Luigi Cadorna prende possesso della carica di comandante in capo dell'esercito italiano il 27 luglio 1914, quattro giorni prima che l'ultimatum dell'Austria alla Serbia apra la strada alla prima guerra mondiale. L'Italia entrerà nel conflitto a fianco di Francia e Gran Bretagna solo un anno più tardi, ma nel frattempo Cadorna ha avuto tempo di alzare la voce soprattutto per chiedere un codice militare più severo, capace di consentire contro i soldati l'"uso di una fermezza spinta sino all'estremo rigore".
Nel 1915, dopo le "radiose giornate di maggio", anche l'Italia dichiara guerra agli Imperi Centrali, e la strategia che Cadorna intende adottare per portare l'Italia alla vittoria è chiara: fare pressione sul fronte orientale per portare lo scontro decisivo nel cuore del territorio austro-ungarico grazie a una guerra ancora concepita in termini ottocenteschi, con grandi armate in movimento prima della tradizionale battaglia campale destinata a decidere le sorti del conflitto. In realtà, sul fronte occidentale, gli eserciti avversari si stanno già confrontando in una logorante e sanguinosa guerra di posizione: ma questa esperienza non scoraggia Cadorna, né lo preoccupa il fatto che l'Esercito italiano si trovi dinanzi a un nemico arroccato su posizioni munitissime, sovrastante grazie all'orografia alpina. Quel che a lui preme - e continua a ripeterlo con ossessiva monotonia - è che le truppe siano animate da uno spirito combattivo capace di aver ragione di ogni ostacolo.
Non a caso l'ultima circolare diramata dal comando supremo il 19 maggio 1915 - a quattro giorni dall'inizio delle ostilità - riguarda la necessità di imporre nei ranghi della fanteria un'obbedienza pronta, cieca e assoluta.
Scrive Corbi nella sua esemplare biografia di Cadorna: "Dieci i punti e tutti dedicati alla disciplina, che il comando supremo voleva regnasse "ferrea" e "sovrana". Al punto 3 era scritto: "Nessuna tolleranza sia lasciata impunita, ma la si colpisca con rigore esemplare". Al punto 5 si precisava che "i vincoli disciplinari sono infrangibili" e che "qualunque attentato alla loro compagine è destinato a spezzarsi contro i principi d'ordine, d'obbedienza e d'autorità". Al 6 si ordinava: "La punizione intervenga pronta: l'immediatezza nel colpire riesce di salutare esempio". Al 7 si sottolineava che "la legge dà i mezzi per infrangere le volontà riottose o ribelli: se ne avvalgano coloro cui spetta". All'8 un chiaro avvertimento: "Il comando supremo riterrà responsabili i comandanti che si mostrassero titubanti nell'assumere senza indugio l'iniziativa di applicare, quando il caso lo richieda, le più estreme misure di coercizione e repressione"".
Al popolo di contadini, per lo più ignaro della posta in gioco, cui si stava per chiedere il sangue, si promettevano dunque in cambio solo punizioni e repressione. E a quella sua spietata circolare, commenta ancora Corbi, Cadorna non sarebbe mai venuto meno...
È nel quadro di questa concezione strategica e in questo clima che Cadorna lancia il suo attacco frontale - la sua prima "spallata", come presto verrà chiamata - sul fronte dell'Isonzo.
"I mezzi per raggiungere la demoralizzazione dell'avversario, e perciò la vittoria" pontifica Cadorna "sono due: la superiorità del fuoco e l'irresistibile movimento in avanti: ma di essi il secondo è il principale (...) perché la persistenza nell'avanzare induce il difensore ad appiattirsi e a tirare alto."
E, quand'anche il fante "venga a cadere sotto il fuoco aggiustato dell'artiglieria", niente paura: "basta solo sottrarsi all'offesa nel solo modo consentito, vale a dire procedendo innanzi con maggiore celerità..."
È un passo - commenta Corbi - che "denota l'assoluta ignoranza della possibilità da tempo offerta a cannoni e mitragliatrici di concentrare il fuoco su un punto determinato sì da rendere umanamente impossibile ogni movimento. Ma per Cadorna le nuove armi sono viste solo in funzione offensiva, anzi l'attacco, proprio in loro virtù "presenta oggi più favorevoli di buona riuscita che in passato..."".
Quello che occorre - continua a insistere il generale - è "mantener viva la fede nella riuscita (dell'attacco frontale) e nell'efficacia della baionetta, per infonderla nei gregari e trascinarli impavidi attraverso la zona tempestata dai proiettili nemici sino a conquistare il lauro della vittoria..."
Il 23 giugno 1915 scatta la prima "offensiva dell'Isonzo" che si protrae sino al 7 luglio. Risultati strategici: nessuno. Caduti in combattimento 2.000, dispersi 1.500, feriti 11.500. Il costo in termini umani è già alto perché - come si accerterà più tardi - la maggior parte dei "dispersi" è costituita da cadaveri non recuperati che restano a marcire nella "terra di nessuno" e il 15-20 per cento dei feriti morirà di cancrena e altre infezioni nell'inferno degli ospedali da campo.
Ma Cadorna non molla. Alla prima "spallata" ne seguiranno altre dieci: tutte ugualmente fallite, diverse solo per il numero crescente dei soldati italiani sacrificati per colpa della stolida ostinazione del comandante in capo.
Così, nella seconda offensiva dell'Isonzo, i morti, feriti o dispersi sono già oltre 42.000; nella terza 67.000; nella quarta 49.000; nella quinta, che a malapena riesce a contenere la "spedizione punitiva"(Strafexpedition) del generale Conrad von Hoetzendorf, 140.000; nella sesta 51.000; nella settima 21.000; nell'ottava 24.000; nella nona 40.000; nella decima 150.000 e nell'undicesima 140.000.
Il numero dei caduti in combattimento, più i dispersi e feriti che, come abbiamo detto, sono da aggiungere a questa prima cifra, è ormai da capogiro. Ma Cadorna non è disposto ad autocritiche di nessun tipo. L'aumento dei caduti lo preoccupa solo per la difficoltà di coprire i vuoti con altra "carne da cannone": ed è convinto che se la sua strategia non dà frutti, la colpa è dell'incapacità dei suoi ufficiali che vengono "silurati" a centinaia, della sfortuna che lo ha colpito per colpa di qualche generale jettatore, e soprattutto per il disfattismo che continua ad allignare fra i soldati, malgrado i plotoni di esecuzione che continuano a crepitare su tutti i fronti.
"Addito ad esempio" si legge in un ordine del giorno del 22 giugno 1915 "il colonnello del 141° fanteria Thermescav Attilio che la sera del 26 maggio alle falde del monte Mosciagh non esitò a prendere immediatamente le più energiche misure di rigore contro alcuni sbandati che disertavano il loro posto d'onore... Gli tributo perciò un encomio solenne che porto a conoscenza di tutto l'esercito perché la sua energica ed esemplare condotta sia d'incitamento a tutti..."
È la prima volta che Cadorna parla di un subordinato come di un eroe, elogiandolo per aver fatto fucilare un sottotenente, tre sergenti e otto soldati italiani! E i comandanti disciplinatamente rispondono all'appello, aggiungendo ai caduti in combattimento un altro migliaio di morti per le esecuzioni in seguito alle condanne delle Corti marziali, le fucilazioni sommarie, le "decimazioni" dei plotoni giudicati colpevoli di "viltà dinanzi al nemico" e l'uccisione alla spicciolata - sempre pour l'example - di fantaccini ribelli agli ordini di uscire dalle trincee sotto il fuoco nemico... Sembra di assistere al film di Kubrick Orizzonti di gloria (ispirato peraltro a un fatto reale di quello stesso periodo, il famoso "caso dei quattro caporali di Suippes" sul fronte francese).
E si giunge così al tragico autunno del 1917. La vittoria è più lontana che mai, ma Cadorna continua a ostentare sicurezza, ed è irritato perché il governo rilutta a concedergli quel grado di "generale d'esercito" (leggi "generalissimo") a cui ritiene che il suo comando delle operazioni di terra gli abbia dato diritto. Non sa che mentre lui intriga a Roma, a Berlino il generale Otto von Below sta dando gli ultimi ritocchi all'offensiva che di lì a poche settimane condurrà alla catastrofe di Caporetto. L'episodio è troppo noto e doloroso perché meriti la pena di essere ricostruito in dettaglio. Quel che ci interessa è che ancora una volta Cadorna non smentisce il suo personaggio: scarica la colpa sui subordinati, grida al tradimento dei politici, denuncia il sabotaggio dei partiti di sinistra, ordina "fucilazioni esemplari" e si adopera in ogni modo per screditare i soldati che in quelle stesse ore stanno morendo al fronte. Il fondo dell'abiezione è raggiunto con il famigerato bollettino ufficiale del 28 ottobre che addebita interamente la responsabilità del disastro alla "mancata resistenza di reparti della II Armata, vilmente ritrattisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico": talmente vergognoso e bugiardo da costringere il governo a diffonderne in tutta fretta una versione opportunamente riveduta e corretta.
Lo sfondamento di Caporetto costa altre perdite pesantissime (40.000 fra morti e feriti, 280.000 prigionieri, e 350.000 fra sbandati e disertori), ma soprattutto fa temere il collasso dell'intero Esercito e il crollo del fronte interno. Cadorna però continua a ostentare un'altezzosa sicurezza. Non fa alcuna autocritica e non ha alcun moto di pietà per le morti e le inumane sofferenze provocate dalla sua dissennata strategia. "Io mi sento tranquillo e forte come chi sa di aver fatto il suo dovere e non teme la sorte avversa" commenta. Sa di essere al centro di violente critiche, ma spera ancora di cavarsela grazie all'appoggio del re, e alla sua capacità di ricattare il governo. E forse ce la farebbe anche se i comandi alleati non si rifiutassero di mandare rinforzi francesi o inglesi sotto il comando del generale Cadorna. Così l'8 novembre il re comunica a Cadorna che è stato trasferito come "tecnico militare" presso il Comitato consultivo interalleato di Parigi e che il comando in capo dell'esercito italiano sarà assunto dal generale Armando Diaz.
Ma l'uomo che per anni aveva predicato agli altri il dovere dell'ubbidienza cieca, pronta e assoluta agli ordini superiori, ora punta i piedi: protesta ad alta voce per questa "destituzione immeritata" (!), afferma che attraverso la sua persona viene umiliata l'Italia, e rifiuta come umiliante degradazione l'incarico quale consulente di persone che "disprezza altamente"...
Ma non c'è niente da fare: il 9 novembre infatti è costretto a fare i bagagli e ad abbandonare il fronte per far ritorno a Roma, frustrato e furente.
È questo l'uomo che sul punto del suicidio sarebbe stato convinto da padre Pio a non compiere quell'atto disperato? E quando sarebbe avvenuto il "miracolo"? Come abbiamo già visto, c'è divergenza sulle date: il 30 ottobre, come sostiene Malatesta, oppure il 9 novembre, come vorrebbe la scrittrice polacca Maria Winowska? Cioè, l'indomani dello sfondamento o l'indomani della destituzione? Da un punto di vista storiografico il punto è importante, ma dal punto di vista psicologico non è decisivo perché entrambi gli autori ci presentano - e c'è da crederci - un Cadorna privo di qualsiasi dubbio circa le sue responsabilità nel disastro quale supremo capo militare, e per nulla assediato dai fantasmi delle centinaia di migliaia di giovani mandati a morire dalle sue farneticazioni strategiche; ma soltanto ossessionato dalla prospettiva di essere usato dai suoi nemici come "capro espiatorio" (!) per la sconfitta (Malatesta) oppure umiliato e offeso per l'insulto arrecato al suo "onore militare" con licenziamento simile a quello che - parole sue - sarebbe andato bene soltanto "per un furiere" (Winowska).
Ma perché? Perché - siamo fatalmente portati a chiederci - padre Pio sarebbe addirittura ricorso alla bilocazione per impedire il suicidio di un simile personaggio? In quel tempo, tra l'altro, il frate di Pietrelcina era sfuggito di un soffio a un'accusa di diserzione, che ben sappiamo con quanta indulgenza sarebbe stata considerata dall'aspirante "generalissimo", e avrebbe di lì a poco implorato "misericordia per le povere nazioni tanto provate dalla sventura della guerra" durante un incontro faccia a faccia con Gesù...
E allora? È chiaro che la mente di Dio resta imperscrutabile; e così pure quella dei suoi intermediari: ma in questo clima di fides et ratio - non sembra illecito prendere a esempio padre Juniper, il protagonista del Ponte di San Luis Rey di Thornton Wilder che si chiedeva se non fosse "giunto il momento di far posto anche alla teologia fra le scienze esatte" - e chiedersi: perché?
Per impedire che quella vita si concludesse con il peccato mortale di un suicidio? E perché quel trattamento di riguardo proprio nei confronti di Cadorna con tanti altri cristiani sul punto di commettere - probabilmente in quello stesso momento - l'identico gesto disperato?
Oppure lo scopo era stato quello di dare al generale ancora una possibilità di pentirsi per il fiume di sangue che il suo sfrenato orgoglio e la sua stolida arroganza aveva fatto scorrere per tre anni sulle montagne del Carso e dell'Isonzo? Peccato che di questo pentimento non sia restata traccia; e che anzi - smentendo il vecchio motto secondo cui "Dio non paga il sabato" - il vecchio generale abbia al contrario avuto modo di esser riabilitato, osannato e promosso maresciallo d'Italia prima di morire nel suo letto a 78 anni, avvolto in una bandiera tricolore, con un crocifisso sul petto e con un rosario fra le mani.
A meno che... A meno che quel salvataggio in extremis di undici anni prima non fosse stato motivato dal proposito di risparmiare al girone dei suicidi la vergogna di doverlo ospitare insieme a personaggi di tutto rispetto come Pier delle Vigne (Inferno XII, 55-58). E forse anche chissà - malgrado la diversità di fede - come lo stesso generale Nogi Maresuke, che sicuramente lo avrebbe accolto con quell'"inchino insultante" usato dai giapponesi per manifestare il massimo disprezzo, di fronte alla prospettiva di sedere accanto un simile macellaio...
Sergio De Santis
Giornalista e direttore della collana "StoricaMente" per la casa editrice Avverbi
Ma tutto quel sangue, dei suoi due figli e delle altre migliaia di giovani che i suoi ordini avevano condannato, gli gravavano addosso. Aveva continuato a vivere in obbedienza all'ordine dell'Imperatore: ma, quando il suo divino sovrano era morto, si era sentito libero dal suo giuramento e, nello stesso momento in cui il corteo funebre lasciava il Palazzo, si era aperto il ventre con il suo pugnale da samurai, prima da sinistra a destra e poi dal basso verso l'alto, infine lasciandosi cadere sulla punta della sciabola.
Una storia molto giapponese
Cinque anni più tardi, a decine di migliaia di chilometri, un altro generale responsabile di cruenti massacri, il Capo di stato maggiore dell'Esercito italiano durante la Grande guerra Luigi Cadorna, avrebbe meditato ugualmente di togliersi la vita, ma ne sarebbe stato dissuaso dall'apparizione miracolosa di un frate a quel tempo sotto le armi a Napoli, registrato al locale distretto militare come "Francesco Forgione, classe 1887, matricola 12.904".
Quest'episodio è tornato a galla in occasione della beatificazione di Padre Pio. La notizia era stata riferita dalla stampa e dalla pubblicistica d'occasione con il tradizionale uso dell'indicativo presente (destinato - come leggo nella mia vecchia Grammatica della Lingua Nazionale Italiana di Alessandro Bertrand - ad "affermare la realtà con certezza assoluta"), ma con qualche variante sia sulla data esatta (30 ottobre o 9 novembre 1917) sia sulla sua fonte (lo stesso generale Cadorna, come insinua Panorama, oppure il commilitone generale Osvaldo Roncolini, supportato dalle "cronache del tempo", come sostiene il suo ultimo biografo Enrico Malatesta).
Dettagli che mi ripropongo di approfondire, ma che non intaccano il nocciolo della questione, confermata autorevolmente sia dal cardinale Giuseppe Siri in occasione della celebrazione del quarto anniversario della morte del frate di Pietrelcina, il 23 settembre 1972 nella chiesa di S. Caterina a Genova (discorso poi pubblicato su Liguria Francescana con il titolo "IV anniversario del transito di Padre Pio"), sia nel volume di Fernando Da Riese Padre Pio da Pietrelcina crocifisso senza croce, pubblicato nel 1975 a cura della Postulazione generale dei Cappuccini con il nihil obstat della SC pro Causis Sanctorum e con l' imprimatur del Vicariato Urbis.
Ecco come l'episodio è riferito, appunto, nel volume dei Padri Cappuccini: "Una notte del novembre del 1917 dopo la disfatta di Caporetto, il generale Luigi Cadorna, comandante supremo dell'esercito italiano nella prima guerra mondiale, in momenti di sconforto per esser stato sostituito nel comando supremo dal generale Armando Diaz e per vedere intaccato il proprio operato militare da indecorosi commenti, in una città del Veneto, vide dinanzi a sé un frate. L'aveva preceduto un acuto profumo di rose e viole. Aveva le mani sanguinanti e uno sguardo dolce. Lo esortò a stare tranquillo. Lo convinse a deporre la pistola e a non compiere un gesto insano da disperato. Il generale, che non aveva mai visto padre Pio, riferendo i particolari dell'accaduto, si sentì dire che quel frate presente nel suo studio, altri non poteva essere che lo stimmatizzato di S. Giovanni Rotondo. Gli nacque il desiderio di rivederlo. Nel 1920 partì verso la cittadella pugliese. Nessuno sapeva di quella visita. Restò quindi meravigliato quando, giunto con la corriera nella cittadella garganica, si sentì dire dai cappuccini che padre Pio l'attendeva. Il Padre fu subito riconosciuto dal generale: "È questo il frate che è venuto da me!" Il Padre si fece ancor più conoscere, ricordandogli: "Generale, l'abbiamo passata brutta, quella notte!""
Per la verità le stimmate, secondo la cronologia ufficiale, sarebbero apparse solo il 20 settembre 1918, vale a dire dieci mesi dopo l'apparizione: ma il punto non merita eccessiva attenzione, sia perché non è detto che l'immagine della bilocazione debba essere la fotocopia fedele del personaggio in quel preciso momento, sia perché il lungo periodo trascorso fra l'episodio e la decisione di Cadorna di recarsi a trovare il frate può aver provocato qualche confusione sui dettagli del "miracolo" nel ricordo dello stesso generale oppure nella sua ricostruzione agiografica.
L'interesse a proposito di quanto sarebbe accaduto durante quella notte triste del novembre 1917 risiede infatti altrove e riguarda, prima ancora che padre Pio, il personaggio del generale, che in tutte le ricostruzioni viene lasciato invece pudicamente in ombra, accasciato sotto il peso degli "indecorosi commenti" che ne avrebbero macchiato l'onore di capo militare. Ma chi era esattamente il generale conte Luigi Cadorna, Capo di stato maggiore dell'Esercito durante i primi due anni e mezzo della partecipazione italiana alla Prima guerra mondiale? E che cosa aveva fatto per tirarsi addosso quegli "indecorosi commenti"?
Il generale d'armata Luigi Cadorna prende possesso della carica di comandante in capo dell'esercito italiano il 27 luglio 1914, quattro giorni prima che l'ultimatum dell'Austria alla Serbia apra la strada alla prima guerra mondiale. L'Italia entrerà nel conflitto a fianco di Francia e Gran Bretagna solo un anno più tardi, ma nel frattempo Cadorna ha avuto tempo di alzare la voce soprattutto per chiedere un codice militare più severo, capace di consentire contro i soldati l'"uso di una fermezza spinta sino all'estremo rigore".
Nel 1915, dopo le "radiose giornate di maggio", anche l'Italia dichiara guerra agli Imperi Centrali, e la strategia che Cadorna intende adottare per portare l'Italia alla vittoria è chiara: fare pressione sul fronte orientale per portare lo scontro decisivo nel cuore del territorio austro-ungarico grazie a una guerra ancora concepita in termini ottocenteschi, con grandi armate in movimento prima della tradizionale battaglia campale destinata a decidere le sorti del conflitto. In realtà, sul fronte occidentale, gli eserciti avversari si stanno già confrontando in una logorante e sanguinosa guerra di posizione: ma questa esperienza non scoraggia Cadorna, né lo preoccupa il fatto che l'Esercito italiano si trovi dinanzi a un nemico arroccato su posizioni munitissime, sovrastante grazie all'orografia alpina. Quel che a lui preme - e continua a ripeterlo con ossessiva monotonia - è che le truppe siano animate da uno spirito combattivo capace di aver ragione di ogni ostacolo.
Non a caso l'ultima circolare diramata dal comando supremo il 19 maggio 1915 - a quattro giorni dall'inizio delle ostilità - riguarda la necessità di imporre nei ranghi della fanteria un'obbedienza pronta, cieca e assoluta.
Scrive Corbi nella sua esemplare biografia di Cadorna: "Dieci i punti e tutti dedicati alla disciplina, che il comando supremo voleva regnasse "ferrea" e "sovrana". Al punto 3 era scritto: "Nessuna tolleranza sia lasciata impunita, ma la si colpisca con rigore esemplare". Al punto 5 si precisava che "i vincoli disciplinari sono infrangibili" e che "qualunque attentato alla loro compagine è destinato a spezzarsi contro i principi d'ordine, d'obbedienza e d'autorità". Al 6 si ordinava: "La punizione intervenga pronta: l'immediatezza nel colpire riesce di salutare esempio". Al 7 si sottolineava che "la legge dà i mezzi per infrangere le volontà riottose o ribelli: se ne avvalgano coloro cui spetta". All'8 un chiaro avvertimento: "Il comando supremo riterrà responsabili i comandanti che si mostrassero titubanti nell'assumere senza indugio l'iniziativa di applicare, quando il caso lo richieda, le più estreme misure di coercizione e repressione"".
Al popolo di contadini, per lo più ignaro della posta in gioco, cui si stava per chiedere il sangue, si promettevano dunque in cambio solo punizioni e repressione. E a quella sua spietata circolare, commenta ancora Corbi, Cadorna non sarebbe mai venuto meno...
È nel quadro di questa concezione strategica e in questo clima che Cadorna lancia il suo attacco frontale - la sua prima "spallata", come presto verrà chiamata - sul fronte dell'Isonzo.
"I mezzi per raggiungere la demoralizzazione dell'avversario, e perciò la vittoria" pontifica Cadorna "sono due: la superiorità del fuoco e l'irresistibile movimento in avanti: ma di essi il secondo è il principale (...) perché la persistenza nell'avanzare induce il difensore ad appiattirsi e a tirare alto."
E, quand'anche il fante "venga a cadere sotto il fuoco aggiustato dell'artiglieria", niente paura: "basta solo sottrarsi all'offesa nel solo modo consentito, vale a dire procedendo innanzi con maggiore celerità..."
È un passo - commenta Corbi - che "denota l'assoluta ignoranza della possibilità da tempo offerta a cannoni e mitragliatrici di concentrare il fuoco su un punto determinato sì da rendere umanamente impossibile ogni movimento. Ma per Cadorna le nuove armi sono viste solo in funzione offensiva, anzi l'attacco, proprio in loro virtù "presenta oggi più favorevoli di buona riuscita che in passato..."".
Quello che occorre - continua a insistere il generale - è "mantener viva la fede nella riuscita (dell'attacco frontale) e nell'efficacia della baionetta, per infonderla nei gregari e trascinarli impavidi attraverso la zona tempestata dai proiettili nemici sino a conquistare il lauro della vittoria..."
Il 23 giugno 1915 scatta la prima "offensiva dell'Isonzo" che si protrae sino al 7 luglio. Risultati strategici: nessuno. Caduti in combattimento 2.000, dispersi 1.500, feriti 11.500. Il costo in termini umani è già alto perché - come si accerterà più tardi - la maggior parte dei "dispersi" è costituita da cadaveri non recuperati che restano a marcire nella "terra di nessuno" e il 15-20 per cento dei feriti morirà di cancrena e altre infezioni nell'inferno degli ospedali da campo.
Ma Cadorna non molla. Alla prima "spallata" ne seguiranno altre dieci: tutte ugualmente fallite, diverse solo per il numero crescente dei soldati italiani sacrificati per colpa della stolida ostinazione del comandante in capo.
Così, nella seconda offensiva dell'Isonzo, i morti, feriti o dispersi sono già oltre 42.000; nella terza 67.000; nella quarta 49.000; nella quinta, che a malapena riesce a contenere la "spedizione punitiva"(Strafexpedition) del generale Conrad von Hoetzendorf, 140.000; nella sesta 51.000; nella settima 21.000; nell'ottava 24.000; nella nona 40.000; nella decima 150.000 e nell'undicesima 140.000.
Il numero dei caduti in combattimento, più i dispersi e feriti che, come abbiamo detto, sono da aggiungere a questa prima cifra, è ormai da capogiro. Ma Cadorna non è disposto ad autocritiche di nessun tipo. L'aumento dei caduti lo preoccupa solo per la difficoltà di coprire i vuoti con altra "carne da cannone": ed è convinto che se la sua strategia non dà frutti, la colpa è dell'incapacità dei suoi ufficiali che vengono "silurati" a centinaia, della sfortuna che lo ha colpito per colpa di qualche generale jettatore, e soprattutto per il disfattismo che continua ad allignare fra i soldati, malgrado i plotoni di esecuzione che continuano a crepitare su tutti i fronti.
"Addito ad esempio" si legge in un ordine del giorno del 22 giugno 1915 "il colonnello del 141° fanteria Thermescav Attilio che la sera del 26 maggio alle falde del monte Mosciagh non esitò a prendere immediatamente le più energiche misure di rigore contro alcuni sbandati che disertavano il loro posto d'onore... Gli tributo perciò un encomio solenne che porto a conoscenza di tutto l'esercito perché la sua energica ed esemplare condotta sia d'incitamento a tutti..."
È la prima volta che Cadorna parla di un subordinato come di un eroe, elogiandolo per aver fatto fucilare un sottotenente, tre sergenti e otto soldati italiani! E i comandanti disciplinatamente rispondono all'appello, aggiungendo ai caduti in combattimento un altro migliaio di morti per le esecuzioni in seguito alle condanne delle Corti marziali, le fucilazioni sommarie, le "decimazioni" dei plotoni giudicati colpevoli di "viltà dinanzi al nemico" e l'uccisione alla spicciolata - sempre pour l'example - di fantaccini ribelli agli ordini di uscire dalle trincee sotto il fuoco nemico... Sembra di assistere al film di Kubrick Orizzonti di gloria (ispirato peraltro a un fatto reale di quello stesso periodo, il famoso "caso dei quattro caporali di Suippes" sul fronte francese).
E si giunge così al tragico autunno del 1917. La vittoria è più lontana che mai, ma Cadorna continua a ostentare sicurezza, ed è irritato perché il governo rilutta a concedergli quel grado di "generale d'esercito" (leggi "generalissimo") a cui ritiene che il suo comando delle operazioni di terra gli abbia dato diritto. Non sa che mentre lui intriga a Roma, a Berlino il generale Otto von Below sta dando gli ultimi ritocchi all'offensiva che di lì a poche settimane condurrà alla catastrofe di Caporetto. L'episodio è troppo noto e doloroso perché meriti la pena di essere ricostruito in dettaglio. Quel che ci interessa è che ancora una volta Cadorna non smentisce il suo personaggio: scarica la colpa sui subordinati, grida al tradimento dei politici, denuncia il sabotaggio dei partiti di sinistra, ordina "fucilazioni esemplari" e si adopera in ogni modo per screditare i soldati che in quelle stesse ore stanno morendo al fronte. Il fondo dell'abiezione è raggiunto con il famigerato bollettino ufficiale del 28 ottobre che addebita interamente la responsabilità del disastro alla "mancata resistenza di reparti della II Armata, vilmente ritrattisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico": talmente vergognoso e bugiardo da costringere il governo a diffonderne in tutta fretta una versione opportunamente riveduta e corretta.
Lo sfondamento di Caporetto costa altre perdite pesantissime (40.000 fra morti e feriti, 280.000 prigionieri, e 350.000 fra sbandati e disertori), ma soprattutto fa temere il collasso dell'intero Esercito e il crollo del fronte interno. Cadorna però continua a ostentare un'altezzosa sicurezza. Non fa alcuna autocritica e non ha alcun moto di pietà per le morti e le inumane sofferenze provocate dalla sua dissennata strategia. "Io mi sento tranquillo e forte come chi sa di aver fatto il suo dovere e non teme la sorte avversa" commenta. Sa di essere al centro di violente critiche, ma spera ancora di cavarsela grazie all'appoggio del re, e alla sua capacità di ricattare il governo. E forse ce la farebbe anche se i comandi alleati non si rifiutassero di mandare rinforzi francesi o inglesi sotto il comando del generale Cadorna. Così l'8 novembre il re comunica a Cadorna che è stato trasferito come "tecnico militare" presso il Comitato consultivo interalleato di Parigi e che il comando in capo dell'esercito italiano sarà assunto dal generale Armando Diaz.
Ma l'uomo che per anni aveva predicato agli altri il dovere dell'ubbidienza cieca, pronta e assoluta agli ordini superiori, ora punta i piedi: protesta ad alta voce per questa "destituzione immeritata" (!), afferma che attraverso la sua persona viene umiliata l'Italia, e rifiuta come umiliante degradazione l'incarico quale consulente di persone che "disprezza altamente"...
Ma non c'è niente da fare: il 9 novembre infatti è costretto a fare i bagagli e ad abbandonare il fronte per far ritorno a Roma, frustrato e furente.
È questo l'uomo che sul punto del suicidio sarebbe stato convinto da padre Pio a non compiere quell'atto disperato? E quando sarebbe avvenuto il "miracolo"? Come abbiamo già visto, c'è divergenza sulle date: il 30 ottobre, come sostiene Malatesta, oppure il 9 novembre, come vorrebbe la scrittrice polacca Maria Winowska? Cioè, l'indomani dello sfondamento o l'indomani della destituzione? Da un punto di vista storiografico il punto è importante, ma dal punto di vista psicologico non è decisivo perché entrambi gli autori ci presentano - e c'è da crederci - un Cadorna privo di qualsiasi dubbio circa le sue responsabilità nel disastro quale supremo capo militare, e per nulla assediato dai fantasmi delle centinaia di migliaia di giovani mandati a morire dalle sue farneticazioni strategiche; ma soltanto ossessionato dalla prospettiva di essere usato dai suoi nemici come "capro espiatorio" (!) per la sconfitta (Malatesta) oppure umiliato e offeso per l'insulto arrecato al suo "onore militare" con licenziamento simile a quello che - parole sue - sarebbe andato bene soltanto "per un furiere" (Winowska).
Ma perché? Perché - siamo fatalmente portati a chiederci - padre Pio sarebbe addirittura ricorso alla bilocazione per impedire il suicidio di un simile personaggio? In quel tempo, tra l'altro, il frate di Pietrelcina era sfuggito di un soffio a un'accusa di diserzione, che ben sappiamo con quanta indulgenza sarebbe stata considerata dall'aspirante "generalissimo", e avrebbe di lì a poco implorato "misericordia per le povere nazioni tanto provate dalla sventura della guerra" durante un incontro faccia a faccia con Gesù...
E allora? È chiaro che la mente di Dio resta imperscrutabile; e così pure quella dei suoi intermediari: ma in questo clima di fides et ratio - non sembra illecito prendere a esempio padre Juniper, il protagonista del Ponte di San Luis Rey di Thornton Wilder che si chiedeva se non fosse "giunto il momento di far posto anche alla teologia fra le scienze esatte" - e chiedersi: perché?
Perché padre Pio ha (avrebbe) fermato quella mano?
Per impedire che quella vita si concludesse con il peccato mortale di un suicidio? E perché quel trattamento di riguardo proprio nei confronti di Cadorna con tanti altri cristiani sul punto di commettere - probabilmente in quello stesso momento - l'identico gesto disperato?
Oppure lo scopo era stato quello di dare al generale ancora una possibilità di pentirsi per il fiume di sangue che il suo sfrenato orgoglio e la sua stolida arroganza aveva fatto scorrere per tre anni sulle montagne del Carso e dell'Isonzo? Peccato che di questo pentimento non sia restata traccia; e che anzi - smentendo il vecchio motto secondo cui "Dio non paga il sabato" - il vecchio generale abbia al contrario avuto modo di esser riabilitato, osannato e promosso maresciallo d'Italia prima di morire nel suo letto a 78 anni, avvolto in una bandiera tricolore, con un crocifisso sul petto e con un rosario fra le mani.
A meno che... A meno che quel salvataggio in extremis di undici anni prima non fosse stato motivato dal proposito di risparmiare al girone dei suicidi la vergogna di doverlo ospitare insieme a personaggi di tutto rispetto come Pier delle Vigne (Inferno XII, 55-58). E forse anche chissà - malgrado la diversità di fede - come lo stesso generale Nogi Maresuke, che sicuramente lo avrebbe accolto con quell'"inchino insultante" usato dai giapponesi per manifestare il massimo disprezzo, di fronte alla prospettiva di sedere accanto un simile macellaio...
Sergio De Santis
Giornalista e direttore della collana "StoricaMente" per la casa editrice Avverbi
Bibliografia
- Corbi G. (1988), Cadorna, Milano: Mondadori.
- Da Riese F. (1975), Padre Pio da Pietrelcina, Roma: Postulazione generale dei Cappuccini.
- Forcella E., Monticone A. (1972), Plotone di esecuzione, Bari: Laterza.
- Malatesta E. (1999), La vera storia di padre Pio, Casale Monferrato: Piemme.
- Pinguet M. (1985), La morte volontaria in Giappone, Milano: Garzanti.
- Winowska M. (1956), Il vero volto di padre Pio, Roma: Edizioni Paoline.