Julian Elliott è Preside del Collingwood College e Professore di Pedagogia all'Università di Durham. Recentemente, insieme a Elena Grigorenko, ha pubblicato uno stimolante libro, per Cambridge Press, intitolato The Dyslexia Debate (Ndr – Il dibattito sulla dislessia). Sostiene che è difficile distinguere tra dislessia e molte altre cause di problemi di lettura; ritiene quindi che questa etichetta sia obsoleta e non necessaria. Questa sua posizione ha, comprensibilmente, fatto storcere il naso a molti insegnanti, educatori specializzati e, in generale, a quei professionisti che vendono prodotti oppure offrono consulenze sostenendo che servono a migliorare la diagnosi di questi problemi. Il professor Elliott ha accettato di parlare con noi di questo dibattito.
Iniziamo col dare una definizione di dislessia evolutiva, così come questa viene di solito inquadrata da un punto di vista cognitivo e neuroscientifico, e col dire perché voi siete contrari a questa etichetta.
È qui che sta il problema. In tutta onestà, ci sono varie definizioni e ancor più modi in cui queste vengono operazionalizzate. Molti ricercatori usano delle definizioni secondo cui la dislessia è descritta semplicemente come una seria e complessa difficoltà nella decodifica dei testi. Questo può andare bene a livello di ricerca, ma pone seri problemi a livello clinico. In questo ambito infatti si ritiene che non tutte le persone con questa difficoltà siano descrivibili come dislessici.
Non vi preoccupa il fatto che negando la definizione diagnostica di dislessia possiate causare un ritorno al passato, quando le persone con problemi di lettura venivano marginalizzate e le loro difficoltà cognitive interpretate come pigrizia o mancanza di determinazione?
Tutt'altro. L'uso di questa etichetta può aiutare alcuni, ma fa sì che coloro che non sono etichettati come dislessici siano ancora visti come pigri e svogliati. Per questo non sorprende che proprio coloro che hanno difficoltà nella lettura siano spesso demotivati e non si impegnino. Un'ulteriore complicazione è costituita dal fatto che sovente ai problemi di lettura si accompagnano quelli di attenzione. Piuttosto che associare un calo motivazionale ad un qualche disturbo caratteriale, dobbiamo essere capaci di capire le sfide a cui vanno incontro queste persone e di aiutarle, cercando di ridurre al minimo il loro bisogno di strategie che ne preservino l'autostima ma che finiscono con l'essere controproducenti.
Il termine dislessia descrive un fenomeno, ma non lo spiega. È un termine-ombrello, come quelli utilizzati per altre sindromi neuropsicologiche, per esempio l'amnesia. Sostenere che l'amnesia sia un termine generico non equivale a negare l'esistenza di pazienti che presentano sintomatologie ben identificabili e diagnosticabili. L'assenza di programmi di riabilitazione specifici basta come argomento per contestare l'utilizzo di questa etichetta diagnostica? Non esistendo alcun trattamento riabilitativo specifico per l'amnesia, dovremmo quindi abbandonare questo termine? L'esistenza di una diagnosi differenziale non dovrebbe essere necessaria, a prescindere dai termini usati o dall'esistenza di una cura?
Un punto chiave è che la dislessia non descrive un fenomeno. È un termine usato da diverse persone per identificare diversi fenomeni. Inoltre, a differenza dell'amnesia, il termine viene usato per identificare, e quindi aiutare, alcune persone con problemi di lettura, ma non altre. La logica sottostante al tuo ragionamento mi è chiara, ma il problema è decisamente più complesso nel caso della lettura. Non si deve assolutamente mettere in dubbio l'esistenza di problemi di lettura anche se non siamo in grado di identificare un metodo che garantisca a tutti coloro che hanno un deficit nella lettura di raggiungere una adeguata funzionalità. Un problema legato all'uso attuale del termine dislessia è che questo porta l'opinione pubblica a credere che la diagnosi determinerà un particolare trattamento (in aggiunta a quanto si fa comunque per aiutare le persone con problemi di lettura). In ultima analisi non ci sono criteri rilevanti per effettuare una diagnosi che distingua tra dislessia e “disabilità di lettura” e i trattamenti disponibili non sono diversi.
Chiariamo immediatamente che non contestate il fatto che le persone con problemi di lettura debbano essere aiutate il più possibile. Cerchiamo anche di mettere in chiaro che il fatto che chi fatica a leggere non venga più (o non debba più essere) considerato pigro, o peggio, costituisce un grosso passo in avanti. Penso che siate d'accordo con entrambe queste affermazioni. Puoi approfondirle?
Certo, concordo. Una delle mie principali preoccupazioni è che “l'industria” della dislessia porta alcune persone ad essere aiutate, ma un effetto collaterale di questa azione è che molte altre persone che hanno bisogni simili vengono ignorate. Storicamente chi non era fluente nella lettura veniva considerato stupido. Tuttavia non c'è alcuna relazione tra la capacita di decodifica di un testo e l'intelligenza (sebbene esista una relazione statistica tra intelligenza e capacità di comprensione). L'etichetta dislessia è d'aiuto perché consente a molti di ridurre questa erronea percezione. Proprio qui sta il problema: coloro che non riescono ad essere diagnosticati come dislessici tendono ad essere automaticamente visti come stupidi e pigri. Questo è tanto sbagliato quanto ingiusto. Piuttosto che affidarci all'etichetta di dislessico per superare questo pregiudizio, dovremmo affrontare il problema alla radice.
Sembrate accettare l'esistenza di casi caratterizzati da specifiche patologie genetiche o neurologiche, ma ritenete che non esista un deficit specifico di apprendimento. È così?
Chiaramente i problemi di lettura hanno, spesso, delle basi genetiche o neurologiche. Tuttavia quando si guardi a caratteristiche legate allo sviluppo (diversamente da quelle congenite), non si è in grado di determinare in che misura queste basi siano presenti in uno specifico individuo. Anche se lo si potesse fare, non avrebbe alcun valore dal punto di vista della pianificazione di una terapia. È questa la considerazione che spinse Frank Vellutino (un'autorità nella ricerca in questo campo) e colleghi a concludere, in una review del 2004 sullo stato delle nostre conoscenze in questo campo, che i medici dovrebbero:
«...spostare il fulcro delle loro attività cliniche dall'enfasi sulla valutazione psicometrica finalizzata alla ricerca delle cause cognitive e biologiche che determinano i problemi di lettura nei bambini per identificare una etichetta diagnostica… all'utilizzo invece di una valutazione che consenta di identificare attività educative e trattamenti mirati ai bisogni del singolo bambino».
Ovviamente alcune persone hanno delle difficoltà estremamente specifiche nel leggere, in matematica, nelle abilità motorie, eccetera. Quando si procede alla valutazione è utile capire il profilo generale in termini di punti di forza e di debolezza. Questo può aiutare gli insegnanti a prestare attenzione a tutte le esigenze dell'individuo. Tuttavia non c'è alcuna prova che gli interventi proposti per la disabilità di lettura debbano essere determinati dalla sua natura, che sia generica o specifica.
Sembra che il numero di persone che ricevono una diagnosi di dislessia sia in aumento. È vero? Per quale motivo?
Non abbiamo evidenze che indichino che i problemi di lettura siano in aumento, sebbene le diagnosi stiano crescendo in parecchi Paesi. Aumenti di questo tipo sono spesso giustificati dalla maggior disponibilità di servizi e/o dal riconoscimento che è necessaria un'etichettatura per accedervi. È interessante, però, notare come negli Stati Uniti, dove vi sono piani di intervento sistematico (a volte noti come “interventi di risposta”) per identificare ed intervenire su un maggior numero di persone con problemi di lettura, la percentuale di coloro che non rispondono con successo agli interventi negli ultimi anni di scuola (a volte indicati come “resistenti al trattamento”) sia in crescita. Ovviamente questo si spiega considerando che il trattamento si conclude rapidamente per coloro che hanno problemi rimediabili rapidamente, mentre si trascina più a lungo per chi ha problemi persistenti e più articolati.
È da molto tempo che tu contesti l'uso del termine dislessia come un'etichetta specifica. Già nel 2005 sei stato uno degli esperti consultati per produrre il documentario, prodotto da Channel 4, dall'inequivocabile titolo Il mito della dislessia. Qual era la tesi principale di questo documentario? Per quale motivo l'Associazione Britannica per la Dislessia l'ha descritto come «molto pericoloso ed offensivo verso coloro che stanno lottando con la dislessia»?
Il titolo era, di fatto, ambiguo, in quanto il programma trattava di vari miti legati alla dislessia. I punti principali che sollevammo in quell'occasione furono:
a) Non ha senso differenziare tra coloro che sono identificati come dislessici e le altre persone che hanno problemi di decodifica.
b) È errato pensare che il Quoziente di Intelligenza (QI) permetta di differenziare i due gruppi.
c) I risultati degli studi genetici e neurologici valgono per tutti coloro che presentano problemi di lettura e non solo per un sottoinsieme costituito dai cosiddetti dislessici.
d) La maggior parte dei trattamenti per la dislessia di tipo non educativo (ad esempio i programmi di allenamento motorio e l'uso di lenti colorate[1]) non hanno solidi fondamenti scientifici.
e) Gli interventi di maggior efficacia per chi ha difficoltà di lettura sono costituiti da programmi educativi strutturati, basati sulla fonetica. Questi stessi programmi sono validi per tutti coloro che hanno difficoltà di lettura e non solo per coloro che sono etichettati come dislessici.
f) La miglior risposta è costituita da un approccio in cui tutte le persone con problemi di lettura siano identificate ed aiutate in maniera rapida ed efficiente a superare le loro difficoltà di lettura.
Si potrebbe pensare che questi argomenti non dovrebbero essere percepiti come dannosi o offensivi. Tuttavia è importante capire che l'etichetta di dislessico ha un'importanza notevole per coloro che si sentono colpiti quando la validità diagnostica del termine stesso viene messa in discussione. Oltretutto il sistema di distribuzione dei finanziamenti attualmente in funzione in molti Paesi fa sì che chi viene etichettato come dislessico abbia accesso alla maggior parte dei fondi disponibili per le terapie, a scapito degli altri.
La neuropsicologia moderna mette a disposizione teorie, metodi e strumenti per interpretare i disordini di lettura dei bambini ed identificarne le possibili cause cognitive. Non si ha una singola spiegazione, un bambino può avere problemi per diverse ragioni: difficoltà viso-percettive, problemi spaziali, di attenzione, lessicali, fonologici, intellettivi, concettuali, mnemonici. Si potrebbe sostenere che la valutazione cognitiva delle difficoltà di lettura non serva tanto a identificare i lettori peggiori, ma piuttosto ad analizzare le problematiche di lettura di ogni singolo individuo. Assumere che il 5% di ogni gruppo sociale (o di ogni classe scolastica) soffra di dislessia potrebbe essere una sovrastima, ma non sarebbe egualmente sbagliato negare l'esistenza di un preciso profilo, identificato come dislessia evolutiva? Potremmo decidere di cambiare questa etichetta, ma di non negarne l'esistenza come un'entità clinica ben identificabile? Questo punto è importante, in quanto i neuropsicologi reagirebbero in maniera marcata ad una simile negazione; potete chiarire la vostra posizione in merito?
Innanzitutto, non voglio negare la natura eterogenea dei problemi di lettura. Le difficoltà iniziano, tuttavia, ad essere evidenti quando si inizia a specificare con esattezza quali siano i processi chiave problematici. In “The Dyslexia Debate” presentiamo e analizziamo le prove a sostegno di ognuna delle principali teorie o spiegazioni. Nella nostra analisi mostriamo come idee diverse siano mescolate insieme e come tra queste vi sia molta discordanza e poco consenso. A complicare ulteriormente le cose, nella maggior parte dei casi, non si ha una connessione evidente tra gli strumenti usati dagli psicometristi, le informazioni ottenute e gli interventi che vengono quindi applicati. È corretto dire che i ricercatori di punta nel campo delle terapie della lettura non concordano sull'idea che la valutazione cognitiva possa aiutare a capire le specifiche necessità di una persona con problemi di lettura o che effettivamente aiuti a formulare una linea di intervento efficace. Per quanto riguarda la negazione di “un preciso profilo” che si possa etichettare come dislessia evolutiva, beh, non mi risulta ne esista uno su cui i medici siano concordi.
Alcune delle critiche al vostro libro (e più in generale ai vostri lavori) sostengono che stiate tentando di negare l'esistenza di uno specifico problema di lettura nei bambini. Questa è, infatti, la posizione di alcuni dei più influenti detrattori del concetto di dislessia, come il parlamentare britannico Graham Stringer che ha affermato: «L'establishment educativo, piuttosto di ammettere che i suoi metodi educativi eclettici ed incompleti siano errati, ha inventato una malattia mentale chiamata dislessia». In che misura le vostre opinioni differiscono, o concordano, con quanto espresso da Stringer?
È frustrante vedere come le critiche provengano da fonti che, è immediatamente chiaro, non hanno nemmeno letto il nostro libro. Anni orsono mi venne chiesto di presentare una relazione al Comitato sulla Scienza e la Tecnologia della House of Commons (Ndr – Uno dei rami del parlamento britannico). Il signor Stringer era uno dei componenti di questo Comitato. Spiegai a lui e al Comitato, in quella occasione, come la sua opinione fosse errata. La realtà è che ci sono molte persone che faticano ad imparare a leggere, a prescindere dalla qualità della educazione che hanno ricevuto. Una parte di queste è incapace di acquisire un livello di competenza funzionale nell'età adulta, anche dopo aver ricevuto i migliori trattamenti che conosciamo. Penso che qualcuno abbia cercato di suggerire che le mie osservazioni sono simili a quelle di Stringer perché è molto più facile controbattere alle sue affermazioni, piuttosto che discutere le mie vere posizioni.
La dislessia ottiene la grande maggioranza dei finanziamenti scolastici finalizzati al sostegno di situazioni difficili, se davvero si trattasse di un mito allora queste risorse potrebbero essere allocate in maniera migliore?
Data la scarsità delle risorse, è molto importante costituire una struttura che possa identificare ogni bambino che mostri problemi nell'apprendimento della lettura, che fornisca interventi appropriati e che, successivamente, definisca la natura e l'estensione di risorse future sulla base della risposta mostrata dal bambino al trattamento ricevuto. Nel Regno Unito ci sono numerosi esempi di famiglie che usano canali legali (tramite i Tribunali per le necessità educative speciali) per ottenere risorse molto dispendiose per i propri figli “dislessici”. Una volta che si ha un verdetto a proprio favore, le autorità locali sono vincolate ad usare le proprie limitate risorse a sostegno della famiglia in oggetto. È chiaro che quel bambino ne ha un beneficio sostanziale, ma a un costo rilevante, che minaccia l'operatività di un servizio a cui possano accedere tutti.
Psicologi, neurologi ed educatori fanno delle valutazioni dettagliate delle disabilità di lettura e esprimono contrarietà alla vostra assunzione che il loro lavoro sia inutile. Anche perché spesso queste valutazioni sono fatte privatamente e costano cifre notevoli, quindi questi professionisti avrebbero tutto da perdere se assecondassero le vostre idee. Siamo quindi in presenza di un conflitto di interessi, quando essi affermano la necessità di valutazioni precise?
Nel libro è scritto chiaramente che, anche se le neuroscienze offrono grandi speranze per il futuro, non siamo ancora a un livello per cui questo approccio possa essere usato per la valutazione di un individuo. Non voglio dire che una valutazione psicologica dettagliata sia inutile. Tuttavia, c'è bisogno di differenziare tra una valutazione che identifica coloro che mostrano problemi di lettura e indirizza verso un intervento appropriato, e quella che fornisce informazioni di background che possono essere utili ad altri scopi. La mia critica maggiore ai test psicologici è che raramente questi soddisfano la prima funzione. Alcuni psicologi sostengono con forza che si dovrebbe identificare quel processo cognitivo difettoso che interferisce con le capacità di lettura (ad esempio, una scarsa memoria o una limitata velocità di elaborazione mentale) al fine di migliorarlo ed ottenere, di conseguenza, dei miglioramenti nella lettura. Sfortunatamente non ci sono dati chiari a sostegno di questa posizione. Attualmente, l'unico intervento che abbia un fondamento scientifico è basato sull'uso di approcci educativi strutturati e sistematici. Ovviamente è utile capire, per quanto possibile, il singolo individuo e i risultati della valutazione psicologica possono fornire informazioni di valore al fine di rispondere adeguatamente ai suoi bisogni educativi, in generale.
Il pilastro centrale della vostra tesi è che, non essendoci differenza nei trattamenti che possiamo offrire a un dislessico e a qualcuno che abbia problemi di lettura, l'etichetta diagnostica non ci aiuta a migliorare le capacità delle persone afflitte da dislessia apparente. È vero che non esiste nessun allenamento o trattamento specifico che possa migliorare la lettura e la scrittura di persone dislessiche?
È corretto.
E la miriade di programmi, interventi e trattamenti per la dislessia che sono disponibili e spesso pubblicizzati aggressivamente, con scarse prove scientifiche a supporto?
Sono costernato da come questi metodi vengano, in genere, pubblicizzati e presentati a coloro che stanno disperatamente cercando di compiere qualche passo in avanti. Il prezzo esorbitante di questi programmi può far pensare che siano di elevata qualità, ma si tratta di una pura illusione. Alcuni dei promotori di questi programmi cercano di costringere i ricercatori a limitare le loro critiche minacciando azioni legali. È triste ma questo approccio sortisce gli effetti desiderati su alcuni colleghi.
Dorothy Bishop, psicologa dello sviluppo cognitivo all'Università di Oxford, ed esperta di livello internazionale sulla dislessia, ha consigliato a genitori e tutori di chiedere sempre le prove quando viene loro offerto un trattamento. Nel suo blog[2] indica ai potenziali utenti di considerare alcuni punti, prima di spendere soldi e crearsi speranze:
1. Chi sta dietro al trattamento e che credenziali ha?
2. Il trattamento ha delle basi scientifiche credibili?
3. Ci sono prove, che provengano da test controllati, della sua efficacia?
Per quale motivo queste sono domande di rilievo? Perché gli acquirenti devono richiedere prove[3]? Si tratta forse di un approccio elitario? Ci sono ulteriori consigli da tenere in considerazione? Da ultimo, cosa sono i test controllati e perché sono importanti per questi trattamenti?
Durante quarant'anni di lavoro in campo educativo, ho assistito a una lunga serie di programmi che avrebbero aiutato a ridurre le difficoltà di lettura dei bambini. Queste affermazioni sono, nella migliore delle ipotesi, ingannevoli, nella peggiore dannose per il bambino e per la sua famiglia. In ultima analisi, il pubblico ha la necessità di sapere che queste affermazioni saranno convalidate o confutate da enti disinteressati, imparziali, che abbiano le conoscenze per farlo e che siano riconosciuti dai loro pari come competenti. Ovviamente coloro a cui non piacciono i giudizi negativi sui propri programmi cercheranno, sovente, di smentire la validità di tali critiche. Un modo di farlo è quello di dichiarare che l'opinione degli esperti è elitaria. Tuttavia, se io fossi seriamente malato, cercherei dei trattamenti che siano stati convalidati dai migliori ricercatori in campo medico. Riterrei forse la loro opinione elitaria? Spero bene di no.
Quando si parla di sperimentazione controllata, ci si riferisce a dei test in cui gli effetti di un particolare trattamento vengono confrontati con quelli ottenuti con altri trattamenti o che si osservano in persone che non vengono affatto trattate. L'attribuzione degli individui ad uno di questi gruppi sperimentali deve avvenire casualmente, in modo da evitare degli errori sistematici (ad esempio, un gruppo ha molti più uomini o donne oppure giovani o anziani). A parte il trattamento in esame, le esperienze a cui i vari gruppi sono soggetti durante il periodo sperimentale devono essere il più possibile simili. È poi fondamentale che l'analisi (solitamente prima e dopo il trattamento) sia effettuata da persone che non conoscono l'appartenenza di un individuo a un dato gruppo (per ridurre ulteriormente le fonti di errore). Ogni differenza tra i punteggi di ogni gruppo dovrebbe, idealmente, essere spiegabile solo in relazione al trattamento in esame. Un approccio di questo tipo garantisce una maggior fiducia nei risultati del trattamento rispetto ad una raccolta di esperienze personali, casi individuali, interviste e simili.
Per quale motivo, a vostro avviso, molti genitori e professionisti del campo sono restii ad abbandonare l'idea di un'etichetta specifica e si affidano ad interventi non sostenuti da prove?
Le persone, in genere, sentono il bisogno di un'etichetta diagnostica per i problemi medici e lo stesso vale per le difficoltà dell'apprendimento o comportamentali. Io però non mi oppongo all'uso di un'etichetta di per sé. Il problema è che, in questo caso, si tratta di un'etichetta che non si basa su criteri coerenti per la sua attribuzione e che, una volta data, non è legata a un programma di trattamento coerente, e che sia diverso da quello che si potrebbe utilizzare per una qualsiasi persona con problemi di lettura. Come ho già detto, l'etichetta ha altre forti funzioni psicologiche che aiutano ad attutire l'impatto negativo sull'autostima e sulla percezione e valutazione altrui.
Il motivo principale per cui molti genitori si affidano ciecamente a trattamenti privi di fondamenti è che hanno un bisogno disperato di soluzioni, specialmente se approcci più tradizionali a livello educativo non sembrano produrre risultati tangibili. Le tattiche di vendita di chi spinge questo tipo di terapie possono essere molto astute. Al momento, un approccio pubblicitario che sembra funzionare bene è quello che suggerisce che il programma sia “basato sul cervello”, in qualche modo. Nonostante il fatto che, per quanto ne sappia, non ci sono interventi “basati sul cervello” che abbiano il minimo supporto scientifico.
C'è tensione, in merito alla dislessia, tra scienza e politica?
Certamente. Di fatto la politica ha giocato a lungo un ruolo di primo piano in ogni questione relativa ai bisogni educativi speciali. Chi fa la voce grossa ottiene dei servizi, mentre chi è meno influente viene trascurato. Ogni tentativo di evidenziare l'ingiustizia di questa situazione viene, solitamente, accolto da cori di protesta, che mettono in primo piano le specifiche necessità di un tipo di bambino in particolare. L'argomento che viene sostenuto per confutare l'accusa di interessi particolari a scapito di altri è che tutti potrebbero richiedere di accedere agli stessi servizi, ma ovviamente ciò non può avvenire. Quindi avere una “dislessia” rappresenta un vantaggio oggettivo rispetto ad avere altre difficoltà di lettura altrettanto invalidanti ma non etichettate.
Cosa dovrebbe fare un genitore per un figlio che abbia problemi di lettura? Cosa dovrebbero fare gli insegnanti? Cosa i legislatori? Gli scienziati?
La risposta dovrebbe essere molto lunga. Cercando di essere brevi ed esaustivi… In primo luogo, gli insegnanti di bambini piccoli devono essere molto competenti nell'insegnamento della lettura ed essere in grado di identificare ed aiutare coloro che mostrino problemi. In secondo luogo, devono esistere delle strutture educative che possano fornire un aiuto dedicato a piccoli gruppi (solitamente per mezzo di un sistema di sostegno a livello crescente in accordo alle necessità di ogni individuo). In terzo luogo, gli insegnanti devono assicurarsi di comprendere i bisogni dei bambini e fornire delle esperienze di apprendimento che coincidano con le abilità del bambino. Le abilità cognitive non devono essere confuse con l'alfabetizzazione, sebbene in passato questo sia successo spesso. Infine, gli insegnanti devono garantire un ambiente scolastico che valorizzi la motivazione, la tenacia e il sentimento di autostima dei bambini. I genitori dovrebbero assicurarsi che la scuola dei loro figli operi secondo queste direttrici. A casa dovrebbero cercare di creare un ambiente che aiuti lo sviluppo del linguaggio e, per quanto possibile, offrire un contesto ricco di stimoli alla lettura. Qualora ci siano dei problemi di rilievo, dovrebbero cercare di nascondere le loro emozioni negative, di ansia e irritazione, verso i problemi scolastici in genere ed in particolare verso quelli relativi alla lettura. I legislatori dovrebbero far sì che gli insegnanti abbiano la formazione necessaria, che nessun bambino con problemi di lettura sia trascurato, che le risorse siano corrispondenti alle necessità reali piuttosto che alle pressioni esercitate dai genitori e che le richieste d'intervento siano valutate e verificate in maniera indipendente. Gli scienziati dovrebbero cercare di esaminare i fattori che possano aiutare a spiegare per quale motivo alcuni bambini abbiano problemi di lettura e, molto importante, dovrebbero continuare a cercare modi efficaci di superare questi ed altri problemi di apprendimento.
Gli studenti che possono dimostrare di aver avuto una diagnosi di dislessa, possono accedere a delle facilitazioni; ad esempio del tempo addizionale negli esami scritti. Se uno studente viene semplicemente etichettato come qualcuno che “ha problemi a leggere” questo non si applica. Potrebbe essere questa una delle cause del proliferare delle diagnosi di dislessia?
Queste facilitazioni cambiano molto da contesto a contesto. Nelle scuole britanniche si può avere accesso a questo genere di facilitazioni senza una diagnosi di dislessia. Tuttavia, nelle università e nei college britannici, la diagnosi può risultare molto vantaggiosa quando si tratta di ottenere un alloggio e risorse aggiuntive. Sembrerebbe, in effetti, che le politiche del governo britannico possano spiegare la crescita esponenziale di diagnosi di dislessia tra gli studenti universitari. Negli ultimi tempi, il governo sta diminuendo i finanziamenti, lasciando che siano le università a doversi far carico del problema ed è plausibile che questo porti a una riduzione dell'incidenza della dislessia nelle università.
Cosa ci vuoi dire per concludere?
Su Twitter un commentatore ha dichiarato recentemente: «La dislessia è la difficoltà incontrata dai dislessici. Capire la dislessia è la difficoltà di chi gli sta intorno.» Questo tipo di ragionamenti tautologici sono attraenti per coloro a cui la precisione delle definizioni non interessa, o che ritengono che non sia affatto desiderabile. Nondimeno, pensieri circolari come questo evidenziano la fragilità del costrutto. Dobbiamo contrastare l'uso di definizioni molteplici ed amorfe se vogliamo assicurarci che tutti coloro che hanno problemi di lettura siano identificati ed aiutati.
Grazie mille del tempo concessoci.
Grazie a voi.
Iniziamo col dare una definizione di dislessia evolutiva, così come questa viene di solito inquadrata da un punto di vista cognitivo e neuroscientifico, e col dire perché voi siete contrari a questa etichetta.
È qui che sta il problema. In tutta onestà, ci sono varie definizioni e ancor più modi in cui queste vengono operazionalizzate. Molti ricercatori usano delle definizioni secondo cui la dislessia è descritta semplicemente come una seria e complessa difficoltà nella decodifica dei testi. Questo può andare bene a livello di ricerca, ma pone seri problemi a livello clinico. In questo ambito infatti si ritiene che non tutte le persone con questa difficoltà siano descrivibili come dislessici.
Non vi preoccupa il fatto che negando la definizione diagnostica di dislessia possiate causare un ritorno al passato, quando le persone con problemi di lettura venivano marginalizzate e le loro difficoltà cognitive interpretate come pigrizia o mancanza di determinazione?
Tutt'altro. L'uso di questa etichetta può aiutare alcuni, ma fa sì che coloro che non sono etichettati come dislessici siano ancora visti come pigri e svogliati. Per questo non sorprende che proprio coloro che hanno difficoltà nella lettura siano spesso demotivati e non si impegnino. Un'ulteriore complicazione è costituita dal fatto che sovente ai problemi di lettura si accompagnano quelli di attenzione. Piuttosto che associare un calo motivazionale ad un qualche disturbo caratteriale, dobbiamo essere capaci di capire le sfide a cui vanno incontro queste persone e di aiutarle, cercando di ridurre al minimo il loro bisogno di strategie che ne preservino l'autostima ma che finiscono con l'essere controproducenti.
Il termine dislessia descrive un fenomeno, ma non lo spiega. È un termine-ombrello, come quelli utilizzati per altre sindromi neuropsicologiche, per esempio l'amnesia. Sostenere che l'amnesia sia un termine generico non equivale a negare l'esistenza di pazienti che presentano sintomatologie ben identificabili e diagnosticabili. L'assenza di programmi di riabilitazione specifici basta come argomento per contestare l'utilizzo di questa etichetta diagnostica? Non esistendo alcun trattamento riabilitativo specifico per l'amnesia, dovremmo quindi abbandonare questo termine? L'esistenza di una diagnosi differenziale non dovrebbe essere necessaria, a prescindere dai termini usati o dall'esistenza di una cura?
Un punto chiave è che la dislessia non descrive un fenomeno. È un termine usato da diverse persone per identificare diversi fenomeni. Inoltre, a differenza dell'amnesia, il termine viene usato per identificare, e quindi aiutare, alcune persone con problemi di lettura, ma non altre. La logica sottostante al tuo ragionamento mi è chiara, ma il problema è decisamente più complesso nel caso della lettura. Non si deve assolutamente mettere in dubbio l'esistenza di problemi di lettura anche se non siamo in grado di identificare un metodo che garantisca a tutti coloro che hanno un deficit nella lettura di raggiungere una adeguata funzionalità. Un problema legato all'uso attuale del termine dislessia è che questo porta l'opinione pubblica a credere che la diagnosi determinerà un particolare trattamento (in aggiunta a quanto si fa comunque per aiutare le persone con problemi di lettura). In ultima analisi non ci sono criteri rilevanti per effettuare una diagnosi che distingua tra dislessia e “disabilità di lettura” e i trattamenti disponibili non sono diversi.
Chiariamo immediatamente che non contestate il fatto che le persone con problemi di lettura debbano essere aiutate il più possibile. Cerchiamo anche di mettere in chiaro che il fatto che chi fatica a leggere non venga più (o non debba più essere) considerato pigro, o peggio, costituisce un grosso passo in avanti. Penso che siate d'accordo con entrambe queste affermazioni. Puoi approfondirle?
Certo, concordo. Una delle mie principali preoccupazioni è che “l'industria” della dislessia porta alcune persone ad essere aiutate, ma un effetto collaterale di questa azione è che molte altre persone che hanno bisogni simili vengono ignorate. Storicamente chi non era fluente nella lettura veniva considerato stupido. Tuttavia non c'è alcuna relazione tra la capacita di decodifica di un testo e l'intelligenza (sebbene esista una relazione statistica tra intelligenza e capacità di comprensione). L'etichetta dislessia è d'aiuto perché consente a molti di ridurre questa erronea percezione. Proprio qui sta il problema: coloro che non riescono ad essere diagnosticati come dislessici tendono ad essere automaticamente visti come stupidi e pigri. Questo è tanto sbagliato quanto ingiusto. Piuttosto che affidarci all'etichetta di dislessico per superare questo pregiudizio, dovremmo affrontare il problema alla radice.
Sembrate accettare l'esistenza di casi caratterizzati da specifiche patologie genetiche o neurologiche, ma ritenete che non esista un deficit specifico di apprendimento. È così?
Chiaramente i problemi di lettura hanno, spesso, delle basi genetiche o neurologiche. Tuttavia quando si guardi a caratteristiche legate allo sviluppo (diversamente da quelle congenite), non si è in grado di determinare in che misura queste basi siano presenti in uno specifico individuo. Anche se lo si potesse fare, non avrebbe alcun valore dal punto di vista della pianificazione di una terapia. È questa la considerazione che spinse Frank Vellutino (un'autorità nella ricerca in questo campo) e colleghi a concludere, in una review del 2004 sullo stato delle nostre conoscenze in questo campo, che i medici dovrebbero:
«...spostare il fulcro delle loro attività cliniche dall'enfasi sulla valutazione psicometrica finalizzata alla ricerca delle cause cognitive e biologiche che determinano i problemi di lettura nei bambini per identificare una etichetta diagnostica… all'utilizzo invece di una valutazione che consenta di identificare attività educative e trattamenti mirati ai bisogni del singolo bambino».
Ovviamente alcune persone hanno delle difficoltà estremamente specifiche nel leggere, in matematica, nelle abilità motorie, eccetera. Quando si procede alla valutazione è utile capire il profilo generale in termini di punti di forza e di debolezza. Questo può aiutare gli insegnanti a prestare attenzione a tutte le esigenze dell'individuo. Tuttavia non c'è alcuna prova che gli interventi proposti per la disabilità di lettura debbano essere determinati dalla sua natura, che sia generica o specifica.
Sembra che il numero di persone che ricevono una diagnosi di dislessia sia in aumento. È vero? Per quale motivo?
Non abbiamo evidenze che indichino che i problemi di lettura siano in aumento, sebbene le diagnosi stiano crescendo in parecchi Paesi. Aumenti di questo tipo sono spesso giustificati dalla maggior disponibilità di servizi e/o dal riconoscimento che è necessaria un'etichettatura per accedervi. È interessante, però, notare come negli Stati Uniti, dove vi sono piani di intervento sistematico (a volte noti come “interventi di risposta”) per identificare ed intervenire su un maggior numero di persone con problemi di lettura, la percentuale di coloro che non rispondono con successo agli interventi negli ultimi anni di scuola (a volte indicati come “resistenti al trattamento”) sia in crescita. Ovviamente questo si spiega considerando che il trattamento si conclude rapidamente per coloro che hanno problemi rimediabili rapidamente, mentre si trascina più a lungo per chi ha problemi persistenti e più articolati.
È da molto tempo che tu contesti l'uso del termine dislessia come un'etichetta specifica. Già nel 2005 sei stato uno degli esperti consultati per produrre il documentario, prodotto da Channel 4, dall'inequivocabile titolo Il mito della dislessia. Qual era la tesi principale di questo documentario? Per quale motivo l'Associazione Britannica per la Dislessia l'ha descritto come «molto pericoloso ed offensivo verso coloro che stanno lottando con la dislessia»?
Il titolo era, di fatto, ambiguo, in quanto il programma trattava di vari miti legati alla dislessia. I punti principali che sollevammo in quell'occasione furono:
a) Non ha senso differenziare tra coloro che sono identificati come dislessici e le altre persone che hanno problemi di decodifica.
b) È errato pensare che il Quoziente di Intelligenza (QI) permetta di differenziare i due gruppi.
c) I risultati degli studi genetici e neurologici valgono per tutti coloro che presentano problemi di lettura e non solo per un sottoinsieme costituito dai cosiddetti dislessici.
d) La maggior parte dei trattamenti per la dislessia di tipo non educativo (ad esempio i programmi di allenamento motorio e l'uso di lenti colorate[1]) non hanno solidi fondamenti scientifici.
e) Gli interventi di maggior efficacia per chi ha difficoltà di lettura sono costituiti da programmi educativi strutturati, basati sulla fonetica. Questi stessi programmi sono validi per tutti coloro che hanno difficoltà di lettura e non solo per coloro che sono etichettati come dislessici.
f) La miglior risposta è costituita da un approccio in cui tutte le persone con problemi di lettura siano identificate ed aiutate in maniera rapida ed efficiente a superare le loro difficoltà di lettura.
Si potrebbe pensare che questi argomenti non dovrebbero essere percepiti come dannosi o offensivi. Tuttavia è importante capire che l'etichetta di dislessico ha un'importanza notevole per coloro che si sentono colpiti quando la validità diagnostica del termine stesso viene messa in discussione. Oltretutto il sistema di distribuzione dei finanziamenti attualmente in funzione in molti Paesi fa sì che chi viene etichettato come dislessico abbia accesso alla maggior parte dei fondi disponibili per le terapie, a scapito degli altri.
La neuropsicologia moderna mette a disposizione teorie, metodi e strumenti per interpretare i disordini di lettura dei bambini ed identificarne le possibili cause cognitive. Non si ha una singola spiegazione, un bambino può avere problemi per diverse ragioni: difficoltà viso-percettive, problemi spaziali, di attenzione, lessicali, fonologici, intellettivi, concettuali, mnemonici. Si potrebbe sostenere che la valutazione cognitiva delle difficoltà di lettura non serva tanto a identificare i lettori peggiori, ma piuttosto ad analizzare le problematiche di lettura di ogni singolo individuo. Assumere che il 5% di ogni gruppo sociale (o di ogni classe scolastica) soffra di dislessia potrebbe essere una sovrastima, ma non sarebbe egualmente sbagliato negare l'esistenza di un preciso profilo, identificato come dislessia evolutiva? Potremmo decidere di cambiare questa etichetta, ma di non negarne l'esistenza come un'entità clinica ben identificabile? Questo punto è importante, in quanto i neuropsicologi reagirebbero in maniera marcata ad una simile negazione; potete chiarire la vostra posizione in merito?
Innanzitutto, non voglio negare la natura eterogenea dei problemi di lettura. Le difficoltà iniziano, tuttavia, ad essere evidenti quando si inizia a specificare con esattezza quali siano i processi chiave problematici. In “The Dyslexia Debate” presentiamo e analizziamo le prove a sostegno di ognuna delle principali teorie o spiegazioni. Nella nostra analisi mostriamo come idee diverse siano mescolate insieme e come tra queste vi sia molta discordanza e poco consenso. A complicare ulteriormente le cose, nella maggior parte dei casi, non si ha una connessione evidente tra gli strumenti usati dagli psicometristi, le informazioni ottenute e gli interventi che vengono quindi applicati. È corretto dire che i ricercatori di punta nel campo delle terapie della lettura non concordano sull'idea che la valutazione cognitiva possa aiutare a capire le specifiche necessità di una persona con problemi di lettura o che effettivamente aiuti a formulare una linea di intervento efficace. Per quanto riguarda la negazione di “un preciso profilo” che si possa etichettare come dislessia evolutiva, beh, non mi risulta ne esista uno su cui i medici siano concordi.
Alcune delle critiche al vostro libro (e più in generale ai vostri lavori) sostengono che stiate tentando di negare l'esistenza di uno specifico problema di lettura nei bambini. Questa è, infatti, la posizione di alcuni dei più influenti detrattori del concetto di dislessia, come il parlamentare britannico Graham Stringer che ha affermato: «L'establishment educativo, piuttosto di ammettere che i suoi metodi educativi eclettici ed incompleti siano errati, ha inventato una malattia mentale chiamata dislessia». In che misura le vostre opinioni differiscono, o concordano, con quanto espresso da Stringer?
È frustrante vedere come le critiche provengano da fonti che, è immediatamente chiaro, non hanno nemmeno letto il nostro libro. Anni orsono mi venne chiesto di presentare una relazione al Comitato sulla Scienza e la Tecnologia della House of Commons (Ndr – Uno dei rami del parlamento britannico). Il signor Stringer era uno dei componenti di questo Comitato. Spiegai a lui e al Comitato, in quella occasione, come la sua opinione fosse errata. La realtà è che ci sono molte persone che faticano ad imparare a leggere, a prescindere dalla qualità della educazione che hanno ricevuto. Una parte di queste è incapace di acquisire un livello di competenza funzionale nell'età adulta, anche dopo aver ricevuto i migliori trattamenti che conosciamo. Penso che qualcuno abbia cercato di suggerire che le mie osservazioni sono simili a quelle di Stringer perché è molto più facile controbattere alle sue affermazioni, piuttosto che discutere le mie vere posizioni.
La dislessia ottiene la grande maggioranza dei finanziamenti scolastici finalizzati al sostegno di situazioni difficili, se davvero si trattasse di un mito allora queste risorse potrebbero essere allocate in maniera migliore?
Data la scarsità delle risorse, è molto importante costituire una struttura che possa identificare ogni bambino che mostri problemi nell'apprendimento della lettura, che fornisca interventi appropriati e che, successivamente, definisca la natura e l'estensione di risorse future sulla base della risposta mostrata dal bambino al trattamento ricevuto. Nel Regno Unito ci sono numerosi esempi di famiglie che usano canali legali (tramite i Tribunali per le necessità educative speciali) per ottenere risorse molto dispendiose per i propri figli “dislessici”. Una volta che si ha un verdetto a proprio favore, le autorità locali sono vincolate ad usare le proprie limitate risorse a sostegno della famiglia in oggetto. È chiaro che quel bambino ne ha un beneficio sostanziale, ma a un costo rilevante, che minaccia l'operatività di un servizio a cui possano accedere tutti.
Psicologi, neurologi ed educatori fanno delle valutazioni dettagliate delle disabilità di lettura e esprimono contrarietà alla vostra assunzione che il loro lavoro sia inutile. Anche perché spesso queste valutazioni sono fatte privatamente e costano cifre notevoli, quindi questi professionisti avrebbero tutto da perdere se assecondassero le vostre idee. Siamo quindi in presenza di un conflitto di interessi, quando essi affermano la necessità di valutazioni precise?
Nel libro è scritto chiaramente che, anche se le neuroscienze offrono grandi speranze per il futuro, non siamo ancora a un livello per cui questo approccio possa essere usato per la valutazione di un individuo. Non voglio dire che una valutazione psicologica dettagliata sia inutile. Tuttavia, c'è bisogno di differenziare tra una valutazione che identifica coloro che mostrano problemi di lettura e indirizza verso un intervento appropriato, e quella che fornisce informazioni di background che possono essere utili ad altri scopi. La mia critica maggiore ai test psicologici è che raramente questi soddisfano la prima funzione. Alcuni psicologi sostengono con forza che si dovrebbe identificare quel processo cognitivo difettoso che interferisce con le capacità di lettura (ad esempio, una scarsa memoria o una limitata velocità di elaborazione mentale) al fine di migliorarlo ed ottenere, di conseguenza, dei miglioramenti nella lettura. Sfortunatamente non ci sono dati chiari a sostegno di questa posizione. Attualmente, l'unico intervento che abbia un fondamento scientifico è basato sull'uso di approcci educativi strutturati e sistematici. Ovviamente è utile capire, per quanto possibile, il singolo individuo e i risultati della valutazione psicologica possono fornire informazioni di valore al fine di rispondere adeguatamente ai suoi bisogni educativi, in generale.
Il pilastro centrale della vostra tesi è che, non essendoci differenza nei trattamenti che possiamo offrire a un dislessico e a qualcuno che abbia problemi di lettura, l'etichetta diagnostica non ci aiuta a migliorare le capacità delle persone afflitte da dislessia apparente. È vero che non esiste nessun allenamento o trattamento specifico che possa migliorare la lettura e la scrittura di persone dislessiche?
È corretto.
E la miriade di programmi, interventi e trattamenti per la dislessia che sono disponibili e spesso pubblicizzati aggressivamente, con scarse prove scientifiche a supporto?
Sono costernato da come questi metodi vengano, in genere, pubblicizzati e presentati a coloro che stanno disperatamente cercando di compiere qualche passo in avanti. Il prezzo esorbitante di questi programmi può far pensare che siano di elevata qualità, ma si tratta di una pura illusione. Alcuni dei promotori di questi programmi cercano di costringere i ricercatori a limitare le loro critiche minacciando azioni legali. È triste ma questo approccio sortisce gli effetti desiderati su alcuni colleghi.
Dorothy Bishop, psicologa dello sviluppo cognitivo all'Università di Oxford, ed esperta di livello internazionale sulla dislessia, ha consigliato a genitori e tutori di chiedere sempre le prove quando viene loro offerto un trattamento. Nel suo blog[2] indica ai potenziali utenti di considerare alcuni punti, prima di spendere soldi e crearsi speranze:
1. Chi sta dietro al trattamento e che credenziali ha?
2. Il trattamento ha delle basi scientifiche credibili?
3. Ci sono prove, che provengano da test controllati, della sua efficacia?
Per quale motivo queste sono domande di rilievo? Perché gli acquirenti devono richiedere prove[3]? Si tratta forse di un approccio elitario? Ci sono ulteriori consigli da tenere in considerazione? Da ultimo, cosa sono i test controllati e perché sono importanti per questi trattamenti?
Durante quarant'anni di lavoro in campo educativo, ho assistito a una lunga serie di programmi che avrebbero aiutato a ridurre le difficoltà di lettura dei bambini. Queste affermazioni sono, nella migliore delle ipotesi, ingannevoli, nella peggiore dannose per il bambino e per la sua famiglia. In ultima analisi, il pubblico ha la necessità di sapere che queste affermazioni saranno convalidate o confutate da enti disinteressati, imparziali, che abbiano le conoscenze per farlo e che siano riconosciuti dai loro pari come competenti. Ovviamente coloro a cui non piacciono i giudizi negativi sui propri programmi cercheranno, sovente, di smentire la validità di tali critiche. Un modo di farlo è quello di dichiarare che l'opinione degli esperti è elitaria. Tuttavia, se io fossi seriamente malato, cercherei dei trattamenti che siano stati convalidati dai migliori ricercatori in campo medico. Riterrei forse la loro opinione elitaria? Spero bene di no.
Quando si parla di sperimentazione controllata, ci si riferisce a dei test in cui gli effetti di un particolare trattamento vengono confrontati con quelli ottenuti con altri trattamenti o che si osservano in persone che non vengono affatto trattate. L'attribuzione degli individui ad uno di questi gruppi sperimentali deve avvenire casualmente, in modo da evitare degli errori sistematici (ad esempio, un gruppo ha molti più uomini o donne oppure giovani o anziani). A parte il trattamento in esame, le esperienze a cui i vari gruppi sono soggetti durante il periodo sperimentale devono essere il più possibile simili. È poi fondamentale che l'analisi (solitamente prima e dopo il trattamento) sia effettuata da persone che non conoscono l'appartenenza di un individuo a un dato gruppo (per ridurre ulteriormente le fonti di errore). Ogni differenza tra i punteggi di ogni gruppo dovrebbe, idealmente, essere spiegabile solo in relazione al trattamento in esame. Un approccio di questo tipo garantisce una maggior fiducia nei risultati del trattamento rispetto ad una raccolta di esperienze personali, casi individuali, interviste e simili.
Per quale motivo, a vostro avviso, molti genitori e professionisti del campo sono restii ad abbandonare l'idea di un'etichetta specifica e si affidano ad interventi non sostenuti da prove?
Le persone, in genere, sentono il bisogno di un'etichetta diagnostica per i problemi medici e lo stesso vale per le difficoltà dell'apprendimento o comportamentali. Io però non mi oppongo all'uso di un'etichetta di per sé. Il problema è che, in questo caso, si tratta di un'etichetta che non si basa su criteri coerenti per la sua attribuzione e che, una volta data, non è legata a un programma di trattamento coerente, e che sia diverso da quello che si potrebbe utilizzare per una qualsiasi persona con problemi di lettura. Come ho già detto, l'etichetta ha altre forti funzioni psicologiche che aiutano ad attutire l'impatto negativo sull'autostima e sulla percezione e valutazione altrui.
Il motivo principale per cui molti genitori si affidano ciecamente a trattamenti privi di fondamenti è che hanno un bisogno disperato di soluzioni, specialmente se approcci più tradizionali a livello educativo non sembrano produrre risultati tangibili. Le tattiche di vendita di chi spinge questo tipo di terapie possono essere molto astute. Al momento, un approccio pubblicitario che sembra funzionare bene è quello che suggerisce che il programma sia “basato sul cervello”, in qualche modo. Nonostante il fatto che, per quanto ne sappia, non ci sono interventi “basati sul cervello” che abbiano il minimo supporto scientifico.
C'è tensione, in merito alla dislessia, tra scienza e politica?
Certamente. Di fatto la politica ha giocato a lungo un ruolo di primo piano in ogni questione relativa ai bisogni educativi speciali. Chi fa la voce grossa ottiene dei servizi, mentre chi è meno influente viene trascurato. Ogni tentativo di evidenziare l'ingiustizia di questa situazione viene, solitamente, accolto da cori di protesta, che mettono in primo piano le specifiche necessità di un tipo di bambino in particolare. L'argomento che viene sostenuto per confutare l'accusa di interessi particolari a scapito di altri è che tutti potrebbero richiedere di accedere agli stessi servizi, ma ovviamente ciò non può avvenire. Quindi avere una “dislessia” rappresenta un vantaggio oggettivo rispetto ad avere altre difficoltà di lettura altrettanto invalidanti ma non etichettate.
Cosa dovrebbe fare un genitore per un figlio che abbia problemi di lettura? Cosa dovrebbero fare gli insegnanti? Cosa i legislatori? Gli scienziati?
La risposta dovrebbe essere molto lunga. Cercando di essere brevi ed esaustivi… In primo luogo, gli insegnanti di bambini piccoli devono essere molto competenti nell'insegnamento della lettura ed essere in grado di identificare ed aiutare coloro che mostrino problemi. In secondo luogo, devono esistere delle strutture educative che possano fornire un aiuto dedicato a piccoli gruppi (solitamente per mezzo di un sistema di sostegno a livello crescente in accordo alle necessità di ogni individuo). In terzo luogo, gli insegnanti devono assicurarsi di comprendere i bisogni dei bambini e fornire delle esperienze di apprendimento che coincidano con le abilità del bambino. Le abilità cognitive non devono essere confuse con l'alfabetizzazione, sebbene in passato questo sia successo spesso. Infine, gli insegnanti devono garantire un ambiente scolastico che valorizzi la motivazione, la tenacia e il sentimento di autostima dei bambini. I genitori dovrebbero assicurarsi che la scuola dei loro figli operi secondo queste direttrici. A casa dovrebbero cercare di creare un ambiente che aiuti lo sviluppo del linguaggio e, per quanto possibile, offrire un contesto ricco di stimoli alla lettura. Qualora ci siano dei problemi di rilievo, dovrebbero cercare di nascondere le loro emozioni negative, di ansia e irritazione, verso i problemi scolastici in genere ed in particolare verso quelli relativi alla lettura. I legislatori dovrebbero far sì che gli insegnanti abbiano la formazione necessaria, che nessun bambino con problemi di lettura sia trascurato, che le risorse siano corrispondenti alle necessità reali piuttosto che alle pressioni esercitate dai genitori e che le richieste d'intervento siano valutate e verificate in maniera indipendente. Gli scienziati dovrebbero cercare di esaminare i fattori che possano aiutare a spiegare per quale motivo alcuni bambini abbiano problemi di lettura e, molto importante, dovrebbero continuare a cercare modi efficaci di superare questi ed altri problemi di apprendimento.
Gli studenti che possono dimostrare di aver avuto una diagnosi di dislessa, possono accedere a delle facilitazioni; ad esempio del tempo addizionale negli esami scritti. Se uno studente viene semplicemente etichettato come qualcuno che “ha problemi a leggere” questo non si applica. Potrebbe essere questa una delle cause del proliferare delle diagnosi di dislessia?
Queste facilitazioni cambiano molto da contesto a contesto. Nelle scuole britanniche si può avere accesso a questo genere di facilitazioni senza una diagnosi di dislessia. Tuttavia, nelle università e nei college britannici, la diagnosi può risultare molto vantaggiosa quando si tratta di ottenere un alloggio e risorse aggiuntive. Sembrerebbe, in effetti, che le politiche del governo britannico possano spiegare la crescita esponenziale di diagnosi di dislessia tra gli studenti universitari. Negli ultimi tempi, il governo sta diminuendo i finanziamenti, lasciando che siano le università a doversi far carico del problema ed è plausibile che questo porti a una riduzione dell'incidenza della dislessia nelle università.
Cosa ci vuoi dire per concludere?
Su Twitter un commentatore ha dichiarato recentemente: «La dislessia è la difficoltà incontrata dai dislessici. Capire la dislessia è la difficoltà di chi gli sta intorno.» Questo tipo di ragionamenti tautologici sono attraenti per coloro a cui la precisione delle definizioni non interessa, o che ritengono che non sia affatto desiderabile. Nondimeno, pensieri circolari come questo evidenziano la fragilità del costrutto. Dobbiamo contrastare l'uso di definizioni molteplici ed amorfe se vogliamo assicurarci che tutti coloro che hanno problemi di lettura siano identificati ed aiutati.
Grazie mille del tempo concessoci.
Grazie a voi.
Note
1) Si veda Query 2013, numero 15, pp 44-47.
3) Si veda l’iniziativa del CICAP “Chiedi le prove”: http://www.chiedileprove.it/