È rimasta tristemente famosa la frase pronunciata da un ministro della Repubblica italiana che affermava senza mezzi termini che «con la cultura non si mangia».
Al di là dell’infelice uscita del ministro, il problema dell’utilità “pratica” della cultura emerge con una certa frequenza. Anche in un precedente pezzo di questa rubrica[1], ci eravamo posti il problema di cosa rispondere a giovani studenti poco motivati che chiedono a cosa serva lo studio. Tanto più se poi brillanti laureati si ritrovano disoccupati o costretti a svolgere umili mansioni che nulla hanno a che fare con ciò in cui si sono specializzati.
Al di là dell’indiscutibile valore intrinseco della cultura, una possibile risposta può derivare da un recente studio commissionato dalla banca d’affari Schroders.
Basandosi su dati OCSE, la banca d’affari ha analizzato quanto può rendere in termini economici l’investimento nell’educazione dei figli. I risultati dello studio sono stati presentati a Milano, la scorsa primavera, nell’ambito di un’iniziativa promossa da Schroders Wealth Management, divisione del gruppo Schroders specializzata nella gestione dei patrimoni per clienti privati, e da Career Paths, società con una lunga esperienza in progetti di formazione e sviluppo personale e professionale dei giovani.
Come ha affermato Giuseppe Marsi, amministratore delegato di Schroders Italy Sim:
«Qual è il patrimonio più importante per una famiglia se non i propri figli? Per questo una realtà come Schroders, dedicata alla gestione del patrimonio finanziario della clientela privata, non poteva trascurare la gestione di un “asset” fondamentale come quello del futuro delle giovani generazioni. Sia a livello di società che a livello di famiglie dobbiamo impegnarci affinché i nostri giovani abbiano la possibilità di capire quali sono le loro attitudini, e aiutarli a costruire il loro percorso educativo, tramite anche esperienze formative, in modo efficiente ed efficace per trovare una loro strada ed essere competitivi in un mondo del lavoro che è completamente cambiato»[2].
Dopo aver considerato gli stipendi medi annui dei neolaureati e averli confrontati con i costi sostenuti dalle famiglie per l’università, l’indagine ha concluso che il ritorno non è mai inferiore al 30% della somma investita.
Ad esempio, le spese complessive per raggiungere una laurea quinquennale sono stimate mediamente in 31.750 euro. Lo stipendio medio annuo di un neolaureato è di 16.800 euro, ossia il 53% dell’investimento. Se invece si prende come riferimento l’università privata Bocconi di Milano, i costi di una laurea magistrale raggiungono gli 85mila euro, ma il primo stipendio sale a 44.346 euro l’anno.
Nel 2014 Federconsumatori aveva realizzato un’indagine analoga e aveva concluso che in media il costo totale di una laurea triennale ammonta a 19mila euro e che lo stipendio medio annuo di un giovane fresco di laurea si aggira sui 13.200 euro, con una percentuale di rendimento del 69%.
Secondo i dati Ocse la situazione è invece diversa negli Stati Uniti, dove i costi ben più elevati dell'istruzione fanno scendere la percentuale al 30 per cento.
Quindi, dal punto di vista strettamente economico, l’istruzione rappresenta un buon investimento. Ciò nonostante, dallo studio Schroders emerge che le famiglie italiane investono relativamente poco nell’educazione dei figli. La spesa complessiva in istruzione del nostro paese si ferma al 5,5% del Pil (meno di 9 miliardi di euro). Ben al di sotto dei dati di altri paesi: 6% in Spagna, Francia o Irlanda, quasi 7% in Gran Bretagna e Stati Uniti e vicini all’8% in Corea del Sud e Danimarca.
Secondo gli esperti di Schroders questi bassi investimenti hanno inevitabilmente conseguenze negative in quanto una buona istruzione è un forte antidoto alla disoccupazione. E questo vale anche in situazioni economiche di difficoltà come quelle in cui versa l’Italia da parecchio tempo.
Questa conclusione è confermata da uno studio della società di consulenza McKinsey & Company che ha mostrato come il 40% della disoccupazione giovanile dipenda da scelte formative sbagliate, indipendentemente dal contesto economico[3].
I dati risultanti da queste indagini devono però necessariamente essere confrontati con altri, apparentemente in contrasto. Ad esempio il Censis ha mostrato che quasi il 20% dei lavoratori italiani è “sotto inquadrato”, ovvero svolge mansioni inferiori rispetto a quello che consentirebbe loro il livello formativo raggiunto. In termini assoluti questo equivale a più di 4 milioni di persone. Tra questi il 41% è laureato. In particolare risulta sotto inquadrato il 44% dei laureati in scienze sociali e in materie umanistiche, il 57% dei laureati in economia o statistica e il 33% degli ingegneri.
Questi dati mostrano purtroppo che spesso non viene sufficientemente valorizzata la preparazione degli individui.
In ogni caso chi ha un titolo di studio è avvantaggiato rispetto a chi non lo possiede. Il Centro Studi di Confindustria ha mostrato che il possesso di una laurea aumenta del 40% le probabilità di trovare un impiego rispetto a chi ha solo un diploma. Purtroppo però nel nostro paese la situazione non è uniforme, come risulta da un rapporto di Almalaurea. Dopo un anno dalla fine degli studi risulta occupato il 74% dei laureati del Nord Italia, mentre non si va oltre il 53% al Sud. Queste differenze si riscontrano anche in termini economici. Il primo stipendio al Nord è in media di 1.290 euro, mentre al Sud si abbassa a 1.088 euro. Per fortuna nel corso della carriera le differenze tendono a diminuire. Dopo 5 anni lavora infatti l’89% dei laureati residenti al Nord e il 74% di quelli che abitano al Sud e le retribuzioni salgono rispettivamente a 1.480 euro e a 1.242 euro.
Da varie fonti risulta comunque che, al di là di quelle destinate all’istruzione, le spese sostenute dalle famiglie per i figli sono piuttosto gravose. Federconsumatori[4] ha stimato che in Italia da 0 a 18 anni si spendono in media tra i 113mila e i 271mila euro a seconda del livello di reddito familiare. Questo significa una spesa annua compresa tra i 6.200 e i 22mila euro.
In altri Paesi le spese sono ancora maggiori. In Inghilterra si arriva a 11mila sterline (14.500 euro) all’anno, negli Stati Uniti si può arrivare a 20mila dollari o addirittura a 34mila per le famiglie con reddito più elevato.
Di fronte a simili dati si rimane abbastanza perplessi quando un Ministero della salute si fa promotore di un “fertility day”, invitando i cittadini a far figli, senza intraprendere adeguati provvedimenti economici per consentire loro di mantenerli e istruirli adeguatamente.
Al di là dell’infelice uscita del ministro, il problema dell’utilità “pratica” della cultura emerge con una certa frequenza. Anche in un precedente pezzo di questa rubrica[1], ci eravamo posti il problema di cosa rispondere a giovani studenti poco motivati che chiedono a cosa serva lo studio. Tanto più se poi brillanti laureati si ritrovano disoccupati o costretti a svolgere umili mansioni che nulla hanno a che fare con ciò in cui si sono specializzati.
Al di là dell’indiscutibile valore intrinseco della cultura, una possibile risposta può derivare da un recente studio commissionato dalla banca d’affari Schroders.
Basandosi su dati OCSE, la banca d’affari ha analizzato quanto può rendere in termini economici l’investimento nell’educazione dei figli. I risultati dello studio sono stati presentati a Milano, la scorsa primavera, nell’ambito di un’iniziativa promossa da Schroders Wealth Management, divisione del gruppo Schroders specializzata nella gestione dei patrimoni per clienti privati, e da Career Paths, società con una lunga esperienza in progetti di formazione e sviluppo personale e professionale dei giovani.
Come ha affermato Giuseppe Marsi, amministratore delegato di Schroders Italy Sim:
«Qual è il patrimonio più importante per una famiglia se non i propri figli? Per questo una realtà come Schroders, dedicata alla gestione del patrimonio finanziario della clientela privata, non poteva trascurare la gestione di un “asset” fondamentale come quello del futuro delle giovani generazioni. Sia a livello di società che a livello di famiglie dobbiamo impegnarci affinché i nostri giovani abbiano la possibilità di capire quali sono le loro attitudini, e aiutarli a costruire il loro percorso educativo, tramite anche esperienze formative, in modo efficiente ed efficace per trovare una loro strada ed essere competitivi in un mondo del lavoro che è completamente cambiato»[2].
Dopo aver considerato gli stipendi medi annui dei neolaureati e averli confrontati con i costi sostenuti dalle famiglie per l’università, l’indagine ha concluso che il ritorno non è mai inferiore al 30% della somma investita.
Ad esempio, le spese complessive per raggiungere una laurea quinquennale sono stimate mediamente in 31.750 euro. Lo stipendio medio annuo di un neolaureato è di 16.800 euro, ossia il 53% dell’investimento. Se invece si prende come riferimento l’università privata Bocconi di Milano, i costi di una laurea magistrale raggiungono gli 85mila euro, ma il primo stipendio sale a 44.346 euro l’anno.
Nel 2014 Federconsumatori aveva realizzato un’indagine analoga e aveva concluso che in media il costo totale di una laurea triennale ammonta a 19mila euro e che lo stipendio medio annuo di un giovane fresco di laurea si aggira sui 13.200 euro, con una percentuale di rendimento del 69%.
Secondo i dati Ocse la situazione è invece diversa negli Stati Uniti, dove i costi ben più elevati dell'istruzione fanno scendere la percentuale al 30 per cento.
Quindi, dal punto di vista strettamente economico, l’istruzione rappresenta un buon investimento. Ciò nonostante, dallo studio Schroders emerge che le famiglie italiane investono relativamente poco nell’educazione dei figli. La spesa complessiva in istruzione del nostro paese si ferma al 5,5% del Pil (meno di 9 miliardi di euro). Ben al di sotto dei dati di altri paesi: 6% in Spagna, Francia o Irlanda, quasi 7% in Gran Bretagna e Stati Uniti e vicini all’8% in Corea del Sud e Danimarca.
Secondo gli esperti di Schroders questi bassi investimenti hanno inevitabilmente conseguenze negative in quanto una buona istruzione è un forte antidoto alla disoccupazione. E questo vale anche in situazioni economiche di difficoltà come quelle in cui versa l’Italia da parecchio tempo.
Questa conclusione è confermata da uno studio della società di consulenza McKinsey & Company che ha mostrato come il 40% della disoccupazione giovanile dipenda da scelte formative sbagliate, indipendentemente dal contesto economico[3].
I dati risultanti da queste indagini devono però necessariamente essere confrontati con altri, apparentemente in contrasto. Ad esempio il Censis ha mostrato che quasi il 20% dei lavoratori italiani è “sotto inquadrato”, ovvero svolge mansioni inferiori rispetto a quello che consentirebbe loro il livello formativo raggiunto. In termini assoluti questo equivale a più di 4 milioni di persone. Tra questi il 41% è laureato. In particolare risulta sotto inquadrato il 44% dei laureati in scienze sociali e in materie umanistiche, il 57% dei laureati in economia o statistica e il 33% degli ingegneri.
Questi dati mostrano purtroppo che spesso non viene sufficientemente valorizzata la preparazione degli individui.
In ogni caso chi ha un titolo di studio è avvantaggiato rispetto a chi non lo possiede. Il Centro Studi di Confindustria ha mostrato che il possesso di una laurea aumenta del 40% le probabilità di trovare un impiego rispetto a chi ha solo un diploma. Purtroppo però nel nostro paese la situazione non è uniforme, come risulta da un rapporto di Almalaurea. Dopo un anno dalla fine degli studi risulta occupato il 74% dei laureati del Nord Italia, mentre non si va oltre il 53% al Sud. Queste differenze si riscontrano anche in termini economici. Il primo stipendio al Nord è in media di 1.290 euro, mentre al Sud si abbassa a 1.088 euro. Per fortuna nel corso della carriera le differenze tendono a diminuire. Dopo 5 anni lavora infatti l’89% dei laureati residenti al Nord e il 74% di quelli che abitano al Sud e le retribuzioni salgono rispettivamente a 1.480 euro e a 1.242 euro.
Da varie fonti risulta comunque che, al di là di quelle destinate all’istruzione, le spese sostenute dalle famiglie per i figli sono piuttosto gravose. Federconsumatori[4] ha stimato che in Italia da 0 a 18 anni si spendono in media tra i 113mila e i 271mila euro a seconda del livello di reddito familiare. Questo significa una spesa annua compresa tra i 6.200 e i 22mila euro.
In altri Paesi le spese sono ancora maggiori. In Inghilterra si arriva a 11mila sterline (14.500 euro) all’anno, negli Stati Uniti si può arrivare a 20mila dollari o addirittura a 34mila per le famiglie con reddito più elevato.
Di fronte a simili dati si rimane abbastanza perplessi quando un Ministero della salute si fa promotore di un “fertility day”, invitando i cittadini a far figli, senza intraprendere adeguati provvedimenti economici per consentire loro di mantenerli e istruirli adeguatamente.
Note
1) S. Fuso, “Meglio ricercatori o …ricercati?”, Query n. 17, 2014;
2) P. Sacerdote, “L’investimento migliore? I nostri figli”, Fondi&Sicav, 20/04/2016: http://tinyurl.com/juft9y4
3) A. Tripodi, “L’investimento migliore in tempi di crisi? Quello sulla laurea dei figli”, Il Sole 24ore, 21 aprile 2016: http://tinyurl.com/hv9768t
4) B.S., “Federconsumatori: per un figlio 171 mila euro dalla nascita ai 18 anni”, Helconsumatori, 25/10/2013: http://tinyurl.com/jtr3p4x .