Nel precedente numero di questa rubrica abbiamo visto come l’accesso all’istruzione in molti Paesi del mondo sia un privilegio concesso a pochi e abbiamo anche esaminato alcuni esempi delle lotte e dei sacrifici (spesso a costo della propria vita) che alcuni individui hanno dovuto affrontare per difendere il diritto allo studio.
Avevamo anche osservato che, al contrario, nelle società ricche e democratiche, l’accesso all’istruzione è oramai diventato un fatto scontato, vissuto come un’inevitabile incombenza, affrontata molto spesso controvoglia. Questo atteggiamento dei nostri ragazzi nei confronti dello studio è purtroppo confermato da recenti indagini.
Secondo l’ultimo Rapporto quadriennale sulla salute e il benessere dei giovani pubblicato il 28 marzo 2016 dall’ufficio europeo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità[1], i nostri giovani non amano affatto lo studio.
L’indagine ha esaminato i dati raccolti nel 2013-2014 su ragazze e ragazzi di 11, 13 e 15 anni. Solamente il 26% delle ragazze italiane undicenni e il 17% dei coetanei maschi ha dichiarato di amare molto la scuola. Per i quindicenni il dato cala rispettivamente al 10% e 8%.
Meno appassionati allo studio degli italiani sono soltanto i ragazzi estoni, greci e belgi. I più entusiasti sono invece gli adolescenti armeni (con percentuali rispettivamente del 68% e del 48%).
Anche sul rendimento scolastico, i risultati sono poco incoraggianti. Tra i quindicenni italiani, solo il 50% delle ragazze e il 39% dei ragazzi raggiunge risultati “buoni o eccellenti”. Anche questi valori sono al di sotto della media europea e sono superiori solamente al Belgio, al Portogallo e all’Ungheria. La scuola viene inoltre percepita dai ragazzi come importante fonte di stress. Il 72% delle ragazze quindicenni e il 51% dei coetanei maschi denunciano di essere stressati dall’impegno, dalle ore di lavoro e dall’ansia di prestazione nell’ottenimento dei risultati scolastici. Lo stress viene solo in parte attenuato dal supporto dei compagni di scuola che, a 11 anni, viene valutato dell’ordine del 75% ma cala a poco più del 60% per i quindicenni.
Se dal fronte degli studenti ci spostiamo a quello degli insegnanti, le cose non vanno meglio. Diversi studi nazionali e internazionali dimostrano come la professione dell’insegnante sia tra quelle a più elevato rischio di burnout.
Il termine burnout venne introdotto nel 1974 dallo psicologo tedesco Herbert J. Freudenberger (1927-1999). Esso indica una condizione di stress lavorativo tipica delle cosiddette helping professions (o professioni d’aiuto), quelle attività cioè che, per loro natura, si prefiggono di prestare aiuto, soccorso o sostegno agli altri, o comunque nelle quali le relazioni interpersonali presuppongono un forte coinvolgimento a livello individuale. Oltre agli insegnanti, rientrano in tali professioni i medici, gli infermieri, gli assistenti sociali, gli psicologi, ecc.
Secondo uno studio italiano del 2004[2], gli insegnanti hanno il maggior rischio professionale di sviluppare vere e proprie malattie psichiatriche. Lo studio ha preso in considerazione 3447 casi clinici, derivanti dall’analisi degli accertamenti sanitari per l’inabilità al lavoro, effettuati dal Collegio Medico della ASL Città di Milano nel periodo dal gennaio 1992 al dicembre 2003. Effettuando un confronto tra quattro categorie professionali di dipendenti dell’Amministrazione Pubblica (insegnanti, impiegati, personale sanitario e operatori manuali), è emerso che gli insegnanti sono soggetti a una frequenza di patologie psichiatriche pari a due volte quella della categoria degli impiegati, due volte e mezzo quella del personale sanitario e tre volte quella degli operatori manuali.
Questa situazione di malessere percepita dagli insegnanti si è ulteriormente acuita negli ultimi anni a causa dell’innalzamento dell’età pensionabile[3].
I docenti italiani sono già da tempo i più vecchi del mondo. Dal documento Education at a glance 2015[4] dell’OCSE emerge, ad esempio, che nella scuola primaria italiana il 57% delle maestre ha compiuto i 50 anni e che il 13% ne ha compiuti addirittura 60. All’estero la situazione è differente. In Francia, le maestre over 50 ammontano al 25% e soltanto una su cento ha già compiuto i 60 anni. In Finlandia, patria della migliore scuola d’Europa, le maestre con 50 o più anni rappresentano solo il 30% e quelle con oltre 60 anni, solamente il 4 per cento.
L’aumento dell’età pensionabile a 67 anni e oltre non potrà che peggiorare ulteriormente la situazione italiana dove, negli ultimi anni, si è osservato un progressivo e vistoso aumento dell’età media del personale insegnante. È chiaro che il continuo aumento della differenza di età tra docenti e studenti rende sempre più difficile il rapporto interpersonale su cui si basa la professione docente. Inoltre la prospettiva di vedere sempre più lontana l’età della pensione demotiva gli insegnanti e aumenta sensibilmente il loro stress.
È altrettanto chiaro che il malessere degli insegnanti e quello degli studenti sono due facce della stessa medaglia. Insegnanti demotivati, stressati e nevrastenici producono disagio, inquietudine e sofferenza negli studenti che sviluppano pertanto disinteresse, rifiuto e menefreghismo nei confronti dello studio. Tali atteggiamenti “di difesa” da parte degli studenti incrementano inevitabilmente la frustrazione del docente che finirà con l’accentuare i propri comportamenti negativi innescando in tal modo un catastrofico circolo vizioso.
Come uscire da questa impasse? Non è facile fornire risposte. Il problema è complesso e, come sempre accade nei circoli viziosi e nei meccanismi di feedback, è difficile decidere da dove cominciare. Se ci fossero insegnanti più motivati e sereni, probabilmente vi sarebbero studenti meno stressati dall’ambiente scolastico e più interessati allo studio. Ma è anche vero il contrario: studenti più interessati e appassionati allo studio renderebbero meno frustrati tanti insegnanti e ridurrebbero sensibilmente la diffusione della sindrome del burnout. La difficoltà nel trovare una soluzione però non deve certo servire da alibi per generare immobilismo e lasciare le cose come stanno, come purtroppo succede oramai da tanti anni. Qualcosa occorre fare e probabilmente occorre agire su più fronti contemporaneamente.
Occorre sicuramente migliorare le condizioni degli insegnanti: dal punto di vista economico, ma non solo. Occorre ridurre le loro incombenze burocratiche (drammaticamente aumentate negli ultimi anni) e valorizzare la funzione docente. Inoltre non tutte le professioni sono equivalenti ed è quindi poco sensato ritenere che possa esistere un’età pensionabile uguale per tutte. Per lo meno, per gli insegnanti che hanno raggiunto una certa età dovrebbero essere previste, all’interno delle istituzioni scolastiche, mansioni diverse dalle tipiche lezioni frontali. Occorre rendere la professione dell’insegnante desiderabile a livello sociale, in modo tale che chi la intraprende lo faccia con forti motivazioni e non per ripiego.
Contemporaneamente però occorre agire anche sulla percezione che gli studenti hanno dell’apprendimento. Questo, in sostanza, significa agire a livello sociale. Occorre intraprendere serie iniziative per diffondere la consapevolezza del valore dell’istruzione. Purtroppo i modelli sociali attualmente diffusi penalizzano fortemente la cultura e l’istruzione ed è francamente difficile convincere un ragazzo demotivato nei confronti dello studio dell’importanza che la propria formazione culturale rappresenta.
Il nostro Paese si trova di fronte a tante sfide, ma sicuramente questa rappresenta la principale. Il futuro di un Paese è infatti sempre più legato alla sua capacità di fornire un’adeguata formazione culturale ai propri futuri cittadini. Il sapere e la cultura devono diventare obiettivi ambiziosi e desiderabili per chiunque e quindi apprendere (e di conseguenza insegnare) deve tornare a essere un vero privilegio al quale però tutti devono poter liberamente accedere.
Avevamo anche osservato che, al contrario, nelle società ricche e democratiche, l’accesso all’istruzione è oramai diventato un fatto scontato, vissuto come un’inevitabile incombenza, affrontata molto spesso controvoglia. Questo atteggiamento dei nostri ragazzi nei confronti dello studio è purtroppo confermato da recenti indagini.
Secondo l’ultimo Rapporto quadriennale sulla salute e il benessere dei giovani pubblicato il 28 marzo 2016 dall’ufficio europeo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità[1], i nostri giovani non amano affatto lo studio.
L’indagine ha esaminato i dati raccolti nel 2013-2014 su ragazze e ragazzi di 11, 13 e 15 anni. Solamente il 26% delle ragazze italiane undicenni e il 17% dei coetanei maschi ha dichiarato di amare molto la scuola. Per i quindicenni il dato cala rispettivamente al 10% e 8%.
Meno appassionati allo studio degli italiani sono soltanto i ragazzi estoni, greci e belgi. I più entusiasti sono invece gli adolescenti armeni (con percentuali rispettivamente del 68% e del 48%).
Anche sul rendimento scolastico, i risultati sono poco incoraggianti. Tra i quindicenni italiani, solo il 50% delle ragazze e il 39% dei ragazzi raggiunge risultati “buoni o eccellenti”. Anche questi valori sono al di sotto della media europea e sono superiori solamente al Belgio, al Portogallo e all’Ungheria. La scuola viene inoltre percepita dai ragazzi come importante fonte di stress. Il 72% delle ragazze quindicenni e il 51% dei coetanei maschi denunciano di essere stressati dall’impegno, dalle ore di lavoro e dall’ansia di prestazione nell’ottenimento dei risultati scolastici. Lo stress viene solo in parte attenuato dal supporto dei compagni di scuola che, a 11 anni, viene valutato dell’ordine del 75% ma cala a poco più del 60% per i quindicenni.
Se dal fronte degli studenti ci spostiamo a quello degli insegnanti, le cose non vanno meglio. Diversi studi nazionali e internazionali dimostrano come la professione dell’insegnante sia tra quelle a più elevato rischio di burnout.
Il termine burnout venne introdotto nel 1974 dallo psicologo tedesco Herbert J. Freudenberger (1927-1999). Esso indica una condizione di stress lavorativo tipica delle cosiddette helping professions (o professioni d’aiuto), quelle attività cioè che, per loro natura, si prefiggono di prestare aiuto, soccorso o sostegno agli altri, o comunque nelle quali le relazioni interpersonali presuppongono un forte coinvolgimento a livello individuale. Oltre agli insegnanti, rientrano in tali professioni i medici, gli infermieri, gli assistenti sociali, gli psicologi, ecc.
Secondo uno studio italiano del 2004[2], gli insegnanti hanno il maggior rischio professionale di sviluppare vere e proprie malattie psichiatriche. Lo studio ha preso in considerazione 3447 casi clinici, derivanti dall’analisi degli accertamenti sanitari per l’inabilità al lavoro, effettuati dal Collegio Medico della ASL Città di Milano nel periodo dal gennaio 1992 al dicembre 2003. Effettuando un confronto tra quattro categorie professionali di dipendenti dell’Amministrazione Pubblica (insegnanti, impiegati, personale sanitario e operatori manuali), è emerso che gli insegnanti sono soggetti a una frequenza di patologie psichiatriche pari a due volte quella della categoria degli impiegati, due volte e mezzo quella del personale sanitario e tre volte quella degli operatori manuali.
Questa situazione di malessere percepita dagli insegnanti si è ulteriormente acuita negli ultimi anni a causa dell’innalzamento dell’età pensionabile[3].
I docenti italiani sono già da tempo i più vecchi del mondo. Dal documento Education at a glance 2015[4] dell’OCSE emerge, ad esempio, che nella scuola primaria italiana il 57% delle maestre ha compiuto i 50 anni e che il 13% ne ha compiuti addirittura 60. All’estero la situazione è differente. In Francia, le maestre over 50 ammontano al 25% e soltanto una su cento ha già compiuto i 60 anni. In Finlandia, patria della migliore scuola d’Europa, le maestre con 50 o più anni rappresentano solo il 30% e quelle con oltre 60 anni, solamente il 4 per cento.
L’aumento dell’età pensionabile a 67 anni e oltre non potrà che peggiorare ulteriormente la situazione italiana dove, negli ultimi anni, si è osservato un progressivo e vistoso aumento dell’età media del personale insegnante. È chiaro che il continuo aumento della differenza di età tra docenti e studenti rende sempre più difficile il rapporto interpersonale su cui si basa la professione docente. Inoltre la prospettiva di vedere sempre più lontana l’età della pensione demotiva gli insegnanti e aumenta sensibilmente il loro stress.
È altrettanto chiaro che il malessere degli insegnanti e quello degli studenti sono due facce della stessa medaglia. Insegnanti demotivati, stressati e nevrastenici producono disagio, inquietudine e sofferenza negli studenti che sviluppano pertanto disinteresse, rifiuto e menefreghismo nei confronti dello studio. Tali atteggiamenti “di difesa” da parte degli studenti incrementano inevitabilmente la frustrazione del docente che finirà con l’accentuare i propri comportamenti negativi innescando in tal modo un catastrofico circolo vizioso.
Come uscire da questa impasse? Non è facile fornire risposte. Il problema è complesso e, come sempre accade nei circoli viziosi e nei meccanismi di feedback, è difficile decidere da dove cominciare. Se ci fossero insegnanti più motivati e sereni, probabilmente vi sarebbero studenti meno stressati dall’ambiente scolastico e più interessati allo studio. Ma è anche vero il contrario: studenti più interessati e appassionati allo studio renderebbero meno frustrati tanti insegnanti e ridurrebbero sensibilmente la diffusione della sindrome del burnout. La difficoltà nel trovare una soluzione però non deve certo servire da alibi per generare immobilismo e lasciare le cose come stanno, come purtroppo succede oramai da tanti anni. Qualcosa occorre fare e probabilmente occorre agire su più fronti contemporaneamente.
Occorre sicuramente migliorare le condizioni degli insegnanti: dal punto di vista economico, ma non solo. Occorre ridurre le loro incombenze burocratiche (drammaticamente aumentate negli ultimi anni) e valorizzare la funzione docente. Inoltre non tutte le professioni sono equivalenti ed è quindi poco sensato ritenere che possa esistere un’età pensionabile uguale per tutte. Per lo meno, per gli insegnanti che hanno raggiunto una certa età dovrebbero essere previste, all’interno delle istituzioni scolastiche, mansioni diverse dalle tipiche lezioni frontali. Occorre rendere la professione dell’insegnante desiderabile a livello sociale, in modo tale che chi la intraprende lo faccia con forti motivazioni e non per ripiego.
Contemporaneamente però occorre agire anche sulla percezione che gli studenti hanno dell’apprendimento. Questo, in sostanza, significa agire a livello sociale. Occorre intraprendere serie iniziative per diffondere la consapevolezza del valore dell’istruzione. Purtroppo i modelli sociali attualmente diffusi penalizzano fortemente la cultura e l’istruzione ed è francamente difficile convincere un ragazzo demotivato nei confronti dello studio dell’importanza che la propria formazione culturale rappresenta.
Il nostro Paese si trova di fronte a tante sfide, ma sicuramente questa rappresenta la principale. Il futuro di un Paese è infatti sempre più legato alla sua capacità di fornire un’adeguata formazione culturale ai propri futuri cittadini. Il sapere e la cultura devono diventare obiettivi ambiziosi e desiderabili per chiunque e quindi apprendere (e di conseguenza insegnare) deve tornare a essere un vero privilegio al quale però tutti devono poter liberamente accedere.
Note
1) World Health Organization, Health Behaviour in School-aged Children (HBSC): http://tinyurl.com/hwpxz7x
2) V. Lodolo D’Oria et al., “Quale rischio di patologia psichiatrica per la categoria professionale degli insegnanti?”, La medicina del Lavoro N. 5 /2004
3) M. Bocci, A. Custodero, S. Intravaia, “Questo non è un lavoro per vecchi”, la Repubblica Inchieste, 28 marzo 2016: http://tinyurl.com/zohx62x
4) Education at a Glance 2015 - OECD Indicators, 24 novembre 2015: http://tinyurl.com/hz4jkhe .