Tumori o non tumori? Questo è il problema

  • In Articoli
  • 18-05-2021
  • di Stefano Marcellini, Sara Garofalo, Paola Tellaroli e Silvano Cavallina
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Antenne di telecomunicazione che coprono una città con il segnale del telefono cellulare. ©Public domain pictures
Secondo un recente studio pubblicato sulla rivista Environmental Research e realizzato dall’Istituto Ramazzini di Bologna[1], una Cooperativa Sociale Onlus che si occupa di condurre ricerche sul cancro, i telefoni cellulari sarebbero pericolosi per la salute. Ma sarà vero? Abbiamo effettuato una disamina del lavoro, che è stata pubblicata dalla stessa rivista scientifica e di cui vi parliamo in questo pezzo[2].

I presunti rischi per la salute imputabili alle radiofrequenze usate dalla telefonia mobile sono un tema ancora piuttosto discusso. Negli ultimi decenni numerosi studi hanno cercato di valutarne e quantificarne i potenziali rischi e, sulla base dei risultati ottenuti, sia l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che l’International Agency for Research on Cancer (IARC) hanno indicato come ad oggi non sia stato riscontrato alcun effetto degno di nota (Box 1).

Box 1

L’opinione della IARC sui campi elettromagnetici


L’International Agency for Research on Cancer (IARC) ha classificato i campi elettromagnetici a radiofrequenza nel Gruppo 2B, cioè come “cancerogeni possibili per l’uomo”. Questa categoria viene utilizzata quando un’associazione causale è considerata credibile, ma non esistono dati sufficienti che permettano di trarre conclusioni certe. Questo perché l’effetto del caso, i possibili effetti sistematici legati all’arruolamento dei pazienti, le diverse procedure utilizzate, nonché l’impatto di altri fattori di rischio (come l’età e lo stile di vita) non possono essere esclusi con ragionevole sicurezza. Basti pensare che nella stessa categoria si trova l’aloe vera (presente in un numero sempre maggiore di prodotti per il corpo) e che gli insaccati sono addirittura inseriti nel Gruppo 1, categoria a rischio più elevato rispetto al Gruppo 2. Eppure, anche se tutti sappiamo che non si deve esagerare con i salumi, nessuno di noi li bandirebbe dal supermercato in quanto cancerogeni. Queste classificazioni individuate dalla IARC, infatti, non riguardano quanto sia cancerogena una sostanza, ma quanto siamo certi che lo sia, anche se poco. Ad esempio, anche il fumo di sigaretta fa parte del Gruppo 1, ma - a parità di quantità consumata – le evidenze scientifiche dimostrano che è molto più cancerogeno del salame[3].

D’altra parte, il crescente utilizzo dei cellulari e la mancanza di dati sul loro uso per periodi superiori a 15 anni giustificano ulteriori ricerche per poter verificare la validità o meno dei dubbi e delle incertezze legati all’utilizzo di questi apparecchi. In particolare, data la popolarità dell'uso del cellulare tra i giovani, che implica una maggiore esposizione, l’OMS ha promosso ulteriori studi per indagare i potenziali effetti sulla salute nei bambini e negli adolescenti[4].

All’interno di questo quadro, gli autori dello studio dell’Istituto Ramazzini dichiarano di essere riusciti a evidenziare chiari effetti nocivi per la salute legati a determinate radiofrequenze ed esortano la IARC a rivedere la sua posizione.

Lo studio mira a valutare l’effetto delle radiofrequenze a 1.8 GHz su campioni di ratti sottoposti a varie dosi di irraggiamento con campi elettromagnetici (precisamente del valore di 5, 25 e 50 V/m). I risultati sono confrontati con un campione di controllo che non ha subito alcun irraggiamento, ma che, per il resto, è stato sottoposto a condizioni identiche a quelle dei campioni irraggiati, procedura corretta e necessaria per studi di questo tipo. Gli autori presentano i risultati separatamente per maschi e femmine (senza fornire una doverosa ragione scientifica di questa scelta), mostrando che solo considerando tutte le diverse patologie tumorali indagate, per la sola categoria dei maschi e unicamente per il massimo dosaggio di 50 V/m, si osserva un risultato che gli autori definiscono “statisticamente significativo”, ovvero con un valore di probabilità (p-value) inferiore al 5% (vedi Box 2). Tutte le conclusioni dello studio si basano solo su questo risultato.

Box 2

Cosa vuol dire statisticamente significativo?


Il p-value è definito come la probabilità di ottenere un certo risultato per il solo effetto del caso. Generalmente, nella comunità scientifica, si ritiene che una probabilità del 5% sia sufficientemente bassa per identificare un evento improbabile, sebbene la questione su dove fissare la soglia del livello di significatività debba essere sempre opportunamente ragionata in base alle caratteristiche dell’esperimento in questione. La definizione di questa soglia di probabilità rappresenta, infatti, un punto cruciale, ed è alla base di molti errori sull’uso improprio della statistica, come recentemente sottolineato da una netta presa di posizione della rivista The American Statistician, che ha dedicato a questo tema un volume monografico[5]. Di questo problema si è peraltro occupato anche Stefano Bagnasco proprio su Query[6].

Il p-value viene calcolato assumendo vera l’ipotesi nulla, ovvero che non sia possibile identificare una causa specifica del risultato ottenuto se non il caso. Non può quindi essere utilizzato per avvalorare alcuna ipotesi alternativa, ovvero quella di una reale differenza tra gruppi. Un p-value piccolo, quindi, non ci dice nulla sulla probabilità che l’ipotesi alternativa (in questo caso, che i topi maschi esposti alle radiazioni abbiano più probabilità di sviluppare un tumore rispetto a quelli non esposti) sia vera. Eventualmente può essere lo stimolo per effettuare ulteriori misure, ma non avvalora alcuna ipotesi sulla causa del risultato ritenuto improbabile. Questo punto è cruciale e l’uso improprio del p-value, anche da parte di scienziati, è spesso causa di errori rilevanti[7].

Oltre a quello indicato nel box 2, un altro errore di Falcioni e colleghi sta nel non aver applicato, nei loro calcoli statistici, la cosiddetta correzione per confronti multipli. In pratica, il valore soglia del p-value comunemente ritenuto statisticamente significativo corrisponde a 0.05 se si è effettuato un solo confronto, ma nello studio ne vengono effettuati ben 12 per patologia. Se si tiene correttamente conto di questo aspetto, la soglia diventa notevolmente inferiore e il risultato non risulta più essere statisticamente significativo. Infatti, un risultato casuale, che è ritenuto improbabile se si effettua una sola sperimentazione, diventa più probabile se sono effettuati svariati esperimenti indipendenti. Quindi la soglia per definire improbabile un certo risultato deve essere abbassata di conseguenza, cosa che invece non è stata fatta nello studio del Ramazzini.

Inoltre, lo studio di Falcioni trae tutte le sue conclusioni basandosi su un numero estremamente limitato di casi di cancro osservati, dell’ordine di qualche unità, a fronte di campioni di qualche centinaio di ratti. Ad esempio, il campione ritenuto significativo (p-value<0.05) corrispondente ai maschi irraggiati a 50 V/m, è composto di 207 individui, dei quali solo 3 hanno sviluppato la forma di tumore in questione. Tuttavia, un campione numericamente analogo (202 individui) di femmine, irraggiato nelle stesse modalità, ha comunque sviluppato 2 casi di cancro, che però - secondo i criteri adottati da Falcioni basati sul valore del p-value - non rappresenta un risultato statisticamente significativo. È, inoltre, interessante notare che se si prende in esame il campione totale di maschi e femmine, sebbene numericamente quasi il doppio, questo non mostri alcun aumento statisticamente significativo dei casi avversi, sempre secondo i parametri adottati dagli autori dello studio.

Il fatto che le conclusioni su un argomento tanto importante siano basate su eventi numericamente molto esigui evidenzia quanto deboli dal punto di vista statistico siano le evidenze a supporto della tesi di Falcioni e colleghi. A ulteriore riprova, non si osserva alcuna tendenza all’aumento dei casi di tumore quando la dose assorbita dai ratti era maggiore, cosa che sarebbe invece ragionevole aspettarsi nel caso di un rapporto di causa-effetto tra irraggiamento e sviluppo della patologia tumorale. Il fatto che questo non accada, e che, anzi, il numero di casi di cancro osservati per il campione irraggiato a 25 V/m sia minore di quella per l’irraggiamento 5 V/m, indica che si possa trattare di fluttuazioni statistiche casuali. Se si prova, come fatto nella nostra rianalisi dei dati, a quantificare questi stessi effetti attraverso il calcolo degli Odds Ratios (tecnica statistica che sostanzialmente confronta la frequenza di comparsa di casi avversi fra il campione sperimentale e quello di controllo), i risultati mostrano come, data l’esiguità degli eventi avversi osservati, i casi di cancro abbiano uguali probabilità di verificarsi nei gruppi, a prescindere dalle radiofrequenze.

Il lavoro di Falcioni è inoltre affetto da diversi errori di tipo metodologico. Tra questi: non vengono mostrati i risultati di adeguate analisi statistiche che gli autori affermano di aver pianificato; le numerosità campionarie non sono state determinate a priori (o per lo meno non è stato indicato il criterio con cui esse sono state stabilite); mancano gli intervalli di confidenza dei risultati (ingrediente indispensabile per valutare correttamente l’effettiva significatività dei risultati ottenuti); e infine, vengono commentati risultati definiti dagli stessi autori “statisticamente non significativi” come se invece lo fossero.

Nonostante i numerosi limiti scientifici, evidenziati dalle nostre critiche e da quelle di altri[8], i risultati di Falcioni e colleghi sono stati in più occasioni presentati in conferenze pubbliche come la prova della nocività delle radiofrequenze utilizzate dalla telefonia mobile. In particolare, sono stati indicati come un deterrente per la prossima introduzione della tecnologia 5G[9], sebbene le radiofrequenze utilizzate nello studio di Falcioni e colleghi siano quelle del 3G, tecnologia in uso già da molto tempo in Italia e nel mondo, e ben diversa da quella del 5G.

È opportuno, inoltre, sottolineare che i limiti di legge in Italia sui campi elettromagnetici sono decisamente più stringenti che in altre nazioni. Infatti, è consentita un’intensità del campo pari a 6 V/m per l’esposizione delle persone[10]. Quindi, le dosi a cui sono stati sottoposti i ratti dello studio (che ricordiamo essere pari a 5, 25 e 50 V/m) sono ben superiori rispetto a quelle a cui siamo esposti nella nostra quotidianità.

Pertanto, in attesa di studi più accurati che beneficino di campioni statistici adeguati, resta sempre valido l’invito a non lasciarsi abbagliare da titoli sensazionalistici che fanno leva sulla paura, ma ad analizzare criticamente le notizie, specialmente su argomenti così cruciali. Stay skeptic!

Note

1) Falcioni L. et al. (2018). Report of final results regarding brain and heart tumors in Sprague Dawley rats exposed from prenatal life until natural death to mobile phone radiofrequency field representative of a 1.8 GHz GSM base station environmental emission. Environmental Research. https://doi.org/10.1016/j.envres.2018.01.037
2) Garofalo S. et al. (2020). Cancerogenic effects of radiofrequency radiation: A statistical reappraisal. Environmental Research, 191(September), 110233. https://doi.org/10.1016/j.envres.2020.110233
5) Wasserstein, R. L., Schirm, A. L., & Lazar, N. A. (2019). Moving to a world beyond “p< 0.05”. The American Statistician. Volume 73. https://doi.org/10.1080/00031305.2019.1583913
8) ICNIRP, 2020. ICNIRP note: critical evaluation of two radiofrequency electromagnetic field animal carcinogenicity studies published in 2018. Health Phys. 118, 525–532. https://doi.org/10.1097/HP.0000000000001137 .
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