“E bello doppo il morire vivere anchora”
Anonimo
L’esistenza di una vita dopo la morte rappresenta uno dei temi filosofico-esistenziali di maggior interesse per l’umanità. La morte è il passaggio tra il noto e l’ignoto e l’orrore che suscita la rappresentazione mentale di un vuoto senza tempo ha portato generazioni di accademici e pensatori ad interrogarsi sul destino dell’anima e sul relativo senso della vita.
Teologi e filosofi hanno avanzato nei secoli diverse argomentazioni sull’esistenza di Dio e di una nuova vita dopo la morte, fornendo quelle risposte che la scienza non può fornire in questo campo. Tuttavia esiste un fenomeno legato al passaggio tra la vita e la morte che da decenni affascina i ricercatori, un tipo di esperienza sensoriale su cui la scienza può esprimersi adottando almeno in parte i suoi strumenti di indagine razionale, le cosiddette “esperienze pre-morte”[1],[2],[3].
La prima descrizione dettagliata delle esperienze pre-morte è stata fornita da Raymond Moody, che nel 1975 pubblicò un celebre libro in cui venivano riportati oltre un centinaio di casi di pazienti che avevano vissuto esperienze in apparenza inspiegabili al cospetto della morte[4].
Si trattava di persone che, a seguito di diverse circostanze, erano state dichiarate clinicamente morte, salvo poi, nei minuti immediatamente successivi alla diagnosi di morte, essere rianimate con successo. Tali pazienti, una volta coscienti, avevano riportato una serie di ricordi di eventi che a loro dire si erano verificati durante lo stato di incoscienza.
I resoconti erano incredibilmente simili tra loro, e testimoniavano la visione di luci, la percezione di melodie, la sensazione di essere all’interno di un tunnel, la visione di sagome umane, sino alla sensazione di essere separati dal proprio corpo, così da poter vedere dall’alto i medici durante il tentativo di rianimazione (si veda il BOX 1 per un elenco delle caratteristiche principali riportate in letteratura).
In seguito alla pubblicazione del libro di Moody, la ricerca medica ha annoverato un numero crescente di pazienti che riportavano simili esperienze. Questo è in parte dovuto alla maggior sensibilità di medici e opinione pubblica verso una tipologia di racconti che fino a pochi anni prima veniva frettolosamente catalogata come ‘confusione post-operatoria’. In aggiunta, con il progredire della scienza medica, le tecniche di rianimazione si sono affinate e ciò ha consentito di salvare un maggior numero di pazienti anche quando i criteri della morte clinica (elettroencefalogramma piatto, pupille dilatate, mancanza di respirazione ed attività cardiaca...) erano stati appena raggiunti.
La maggior parte di questi racconti descrive un quadro idilliaco di benessere e felicità che viene interpretato dai pazienti come il primo impatto con una vita ultraterrena. Essi indicano inoltre che questa esperienza ha avuto alcune conseguenze: le persone sono solite cambiare il proprio stile di vita, condurre un’esistenza più religiosa, meno timorosa della morte e conforme a norme etiche e morali che in precedenza venivano seguite meno attivamente. Esiste tuttavia anche una casistica di esperienze negative simili ad incubi[5]. Al riguardo sono state individuate tre categorie di esperienze negative.
La prima è la più frequente e include tutte le caratteristiche classiche (visione di un tunnel, luci, dissociazione corporea, ecc.) con l’eccezione del fatto che ad un certo punto i soggetti vivono la circostanza come pericolosa percependo una mancanza di controllo relativamente a ciò che sta avvenendo loro; il secondo tipo di esperienze negative comporta la sensazione di trovarsi in un vuoto completo, un buio assoluto dove non si percepisce altra presenza al di fuori di sé; l’ultimo tipo è decisamente poco frequente e comporta la visione di scenari infernali e creature demoniache nonché l’aver udito suoni spaventosi. Come è facile immaginare, se le esperienze di pre-morte positive avvicinano le persone ad una condotta etica e più religiosa, è stato documentato come quelle negative esasperino invece la paura della morte.
“Avevo capito che mi era successo qualcosa di grave e che ero morto”
“...tuttavia non ero triste o dolorante, mi sentivo euforico e circondato da un senso di gioia...”
“...riuscivo a vedere il personale medico lavorare su di me, ma io ero come sospeso. Era come se fossi regista della scena, non attore...”
“...poi di fronte a me ho visto un tunnel buio e profondo, non riuscivo a capire dove portasse e cosa ci fosse al termine del tunnel...”
“...c’era una luce davanti a me, un bagliore che non avevo mai visto prima d’ora...”
“...tutto intorno era come avevo immaginato, sapevo che stavo per andare in Paradiso...”
“...improvvisamente ho visto una sagoma umana, inizialmente era indefinita, poi ho capito essere mio padre...”
“...ho iniziato a ripensare a tutta la mia vita, una serie di flashback che non riuscivo a controllare, alcuni di questi eventi non li ricordavo più prima di quel momento...”
“...mi sentivo in un ambiente senza tempo. Potrei essere rimasto lì un minuto o un giorno, il tempo come lo intendiamo noi non aveva senso in quel luogo...”
“...e c’erano suoni, melodie celestiali il cui timbro non saprei definire...”
Alcuni ricercatori[7],[8] hanno cercato di capire se il tipo di esperienza vissuta correli con una condotta di vita più o meno eticamente irreprensibile, in sostanza se nelle esperienze pre-morte vi sia qualche indizio di una sorta di ‘giudizio’, per cui chi ha seguito con attenzione dei precetti morali vivrà un’esperienza positiva mentre chi ha condotto un’esistenza moralmente più discutibile si troverà di fronte a paesaggi spaventosi. La risposta sembra essere negativa: non vi è nessuna correlazione tra lo stile di vita e il tipo di esperienze pre-morte raccontate dai partecipanti degli studi. In poche parole, chi ha precedenti penali di una certa gravità ha la stessa probabilità di incorrere in un’esperienza positiva o negativa.
Con questo ovviamente non si vuol dire che la ricerca abbia ‘dimostrato’ che la condotta che si mantiene in vita non abbia conseguenze su una qualche vita ultraterrena: quello che ci dice la scienza è semplicemente che lo stile di vita delle persone che hanno dichiarato di aver vissuto esperienze pre-morte non ha nulla a che vedere con la gradevolezza di tali esperienze. Sconfinando un po’ in vaghe speculazioni filosofico-teologiche, potremmo dire che 1) o le esperienze pre-morte non sono un primo passo nell’aldilà e la gradevolezza di queste esperienze dipende da fattori psicofisiologici tuttora poco conosciuti, 2) o le leggi che governano questo presunto aldilà sono diverse da quelle suggerite dalle religioni, per cui non siamo in grado di valutare la condotta morale delle persone con il metro usato da qualche altra entità e le nostre analisi statistiche sono basate su scale di valori fuorvianti.
Secondo diversi ricercatori le esperienze pre-morte potrebbero essere spiegate da una serie di cambiamenti fisiologici che insorgono in un cervello fortemente danneggiato, come a seguito della mancanza di ossigeno. È risaputo che in condizioni di stress - ad esempio negli stati di paura che accompagnano l’idea di morire - si assista ad un parziale rilascio di endorfine nel cervello, al fine di ridurre il dolore e indurre una sensazione di benessere, pur in contraddizione con lo stato di evidente difficoltà in cui versa l’organismo. Alcuni studiosi[9] ritengono che tale rilascio di endorfine potrebbe essere alla base di quella sensazione di benessere riportata dai pazienti durante le esperienze pre-morte (“Vedevo i medici su di me e capivo che la situazione era drammatica, ma mi sentivo bene ed ero invaso da un senso di pace”). Inoltre l’inibizione corticale associata alla mancanza di ossigeno al cervello potrebbe essere alla base della percezione di fenomeni visivi, come tunnel e luci[10],[11]. La corteccia visiva è infatti organizzata con un’alta concentrazione di neuroni al centro del campo visivo e un numero minore di neuroni alla periferia; di conseguenza un’attivazione anomala di tale regione potrebbe generare la percezione di una luce chiara al centro della scena e una progressiva diminuzione di chiarezza ai margini del campo visivo, creando una sorte di effetto-tunnel (“Tutto intorno era buio, ma vedevo una luce in fondo, credo fossi dentro un tunnel”).
La maggior parte delle argomentazioni a favore dell’interpretazione biologica delle esperienze di pre-morte è basata sul fatto che determinate regioni cerebrali sembrano giocare un ruolo chiave nell’insorgenza dei fenomeni riportati durante un’esperienza di questo tipo. Ad esempio è noto da tempo come il lobo temporale sia alla base dell’elaborazione di esperienze mistiche e religiose, al punto che la stimolazione elettrica in queste regioni è in grado di indurre allucinazioni, distorsioni della percezione corporea ed esperienze di distacco dal proprio corpo[12]. Il sistema limbico poi - parzialmente incluso nel lobo temporale - è coinvolto nella memoria a lungo termine e nel processamento delle emozioni, ed è stato ipotizzato2 che la mancanza di ossigeno in questa regione possa essere alla base della comparsa del fenomeno di rivisitazione della propria vita (i ricordi autobiografici e le relative emozioni associate ad essi).
Di recente il tema del ruolo del lobo temporale nelle esperienze di pre-morte è stato affrontato anche da due ricercatori dell’università dell’Arizona[13]. Gli studiosi hanno osservato l’attività elettroencefalica di persone che dichiaravano di aver avuto queste esperienze, confrontandola con quella di soggetti con una storia clinica simile, ma che non avevano vissuto lo stesso evento: i risultati hanno documentato come le persone che avevano avuto esperienze di pre-morte soffrivano maggiormente di disturbi epilettici, particolarmente concentrati nel lobo temporale. Gli autori dello studio ipotizzano che un’anomalia del funzionamento del lobo temporale potrebbe facilitare la comparsa di questo tipo di esperienze, suggerendo di fatto un’origine biologica.
In uno studio successivo, alcuni ricercatori[14] hanno reclutato alcune persone che avevano dichiarato di aver avuto esperienze di pre-morte, in particolare di aver percepito una luce avvolgente al centro della scena, e hanno registrato la loro attività cerebrale durante uno stato di meditazione in cui i soggetti dovevano cercare di rappresentarsi mentalmente questa luce. L’attività cerebrale è stata rilevata sia attraverso elettroencefalografia (EEG) che attraverso risonanza magnetica funzionale (fRMI): i risultati hanno documentato come lo stato meditativo fosse accompagnato da cambiamenti elettrici ed emodinamici di diverse regioni cerebrali, incluso ancora una volta il lobo temporale. È stata evidenziata anche un’attivazione di aree tradizionalmente implicate nell’elaborazione di emozioni positive e nella rappresentazione mentale di immagini ed esperienze spirituali, tutte componenti alla base delle sensazioni riportate nei casi di esperienze pre-morte.
Per quanto riguarda il fenomeno della dissociazione corporea, è doveroso sottolineare come questo non sia ignoto alle neuroscienze[15], ma rappresenti un tratto comune a diversi disturbi psichiatrici. I correlati neuroanatomici della dissociazione corporea sono stati in parte documentati nel 2007 attraverso la registrazione dell’attività cerebrale di un paziente di 63 anni che aveva dichiarato di poter rivivere questo fenomeno, e di essere in grado di saper indicare agli sperimentatori l’inizio e la fine di tale esperienza[16]. Al soggetto è stato chiesto di premere un bottone non appena iniziava il processo di separazione corporea mentre l’attivazione delle aree cerebrali veniva registrata tramite tomografia ad emissione di positroni (PET). Come nei precedenti studi, sembra che alla base di tale fenomeno sensoriale siano implicati dei circuiti neurali specifici, in particolare la giunzione temporo-parietale. In seguito una ricerca condotta a Bristol[17] ha documentato anche il coinvolgimento di un più vasto circuito neurale a livello fronto-parietale. In questo senso, il sentirsi ‘fuori dal corpo’ potrebbe non essere altro che il risultato paradossale del funzionamento di una parte del corpo stesso, il cervello.
Sempre nello stesso anno, un articolo uscito sulla celebre rivista Science ha documentato come si possa indurre sperimentalmente in laboratorio una sensazione di parziale dissociazione dell’io dal proprio corpo[18]. Ai partecipanti dello studio venivano dati degli occhiali particolari, che non permettevano di vedere davanti a loro. Al contrario, gli occhiali proiettavano la visione di due telecamere poste alle spalle del soggetto: le immagini della telecamera poste nel lato destro della sala venivano proiettate all’occhio destro, mentre le immagini dalla telecamera di sinistra venivano presentate all’occhio sinistro. La visione stereocinetica della stanza veniva preservata e i partecipanti finivano sostanzialmente per vedere il proprio corpo di spalle. A questo punto il ricercatore, tramite alcuni artifici sperimentali, provvedeva a fornire stimolazioni sul petto o alle spalle toccando i soggetti reali o virtuali (l’immagine cioè che i soggetti vedevano delle loro spalle senza toccare in realtà il corpo dei soggetti). I risultati hanno documentato che le persone - ingannate dalla prospettiva fornita dagli occhiali - ritenevano che anche le stimolazioni presentate al proprio ‘ologramma’ fossero state effettivamente presentate loro. In aggiunta, anche la registrazione della conduttanza cutanea (un indice psicofisiologico molto utilizzato nella ricerca) ha confermato l’esistenza di questa illusione sensoriale: i soggetti a quanto pare si sentivano mentalmente in una posizione diversa rispetto al proprio io corporeo, al punto che questo aveva finito per influenzare anche una risposta psicofisiologica! Nel complesso lo studio suggerisce come l’esperienza di dissociazione corporea possa essere interpretata come una sorta di illusione percettiva complessa: il fatto che sia possibile indurre artificialmente una parziale dissociazione tra la posizione corporea dell’individuo e quella psicologica (anche se meno eclatante di quella riportata nelle esperienze pre-morte) ci indica come la dissociazione corporea possa avvenire anche in circostanze molto lontane dalla morte, senza chiamare in causa concetti come “anima” e “immortalità”.
La ricerca scientifica si è focalizzata anche su altri aspetti psicologici, come i falsi ricordi. È possibile che alla base dell’elevata incidenza di esperienze di pre-morte riportata negli ultimi anni vi sia un processo di formazione non consapevole di falsi ricordi, a seguito del resoconto di altri pazienti rianimati in simili condizioni. Numerose ricerche sperimentali hanno documentato come il semplice fatto di immaginare un evento possa portare alla creazione di false memorie relative all’evento stesso[19]; per tale motivo è possibile ipotizzare che l’essere a conoscenza di un fenomeno noto come ‘esperienze di pre-morte’ possa aver portato alla creazione in alcuni soggetti di falsi ricordi in linea di continuità con i resoconti tradizionali.
È interessante notare al riguardo come la propensione a creare falsi ricordi correli statisticamente con alcuni tratti di personalità che vengono riportati di frequente nei pazienti che dichiarano di aver vissuto esperienze di pre-morte[20],[21]. Questo processo mentale potrebbe poi essere accentuato dalle difficili condizioni cliniche in cui versano pazienti che erano stati dichiarati clinicamente morti.
Un aspetto indubbiamente fragile delle argomentazioni sostenute da chi vede nelle esperienze pre-morte una finestra sull’aldilà riguarda il momento esatto in cui tali ricordi si formerebbero. Da un punto di vista formale un’esperienza di pre-morte si dovrebbe verificare nei primi attimi in cui il paziente rientra nella diagnosi di morte clinica o quantomeno negli ultimi istanti che precedono la morte; tuttavia non vi è ad oggi nessun mezzo per stabilire con esattezza quando si verificano questo tipo di esperienze. È possibile che i fenomeni sensoriali avvengano durante le operazioni di rianimazione, quando ad esempio l’elettroencefalogramma è lontano dall’essere piatto, ma che al risveglio vengano attribuiti arbitrariamente al momento di massima vicinanza con la morte. I neuroscienziati poi sono soliti ricordare che, anche quando si ottiene un tracciato elettroencefalografico piatto, questo non implica che tutto il cervello non sia più in funzione. La corteccia cerebrale è inattiva, ma l’elettroencefalogramma non è uno strumento molto sensibile per rilevare il funzionamento delle strutture sottocorticali, per cui sarebbe più cauto considerare un tracciato piatto come il segnale di un’inattività della corteccia cerebrale piuttosto che dell’intero cervello, e non si può escludere che parte dei fenomeni sensoriali vissuti nelle esperienze di pre-morte abbiano origine dall’attività di alcune strutture sottocorticali.
Anche ipotizzando che le esperienze si verifichino in uno stato completo di morte cerebrale, resterebbe da risolvere un importante dilemma legato al luogo in cui si conserverebbe il ricordo di queste visioni. Perché un evento possa essere ricordato, la memoria umana deve in primo luogo codificare l’esperienza ed elaborarla a livello neurale (almeno sulla base delle attuali conoscenze sulla mente). Applicato al caso delle esperienze pre-morte, questo implica che nel momento in cui si vive un tale fenomeno vi dovrebbe essere un’attività neurale almeno sufficiente per la rappresentazione e la successiva rievocazione dell’intero evento. Se il cervello fosse troppo danneggiato per compiere questo tipo di operazione, diventerebbe allora difficile spiegare come mai, una volta rianimati, i pazienti presentino circuiti neurali che hanno mantenuto tali informazioni in memoria.
Per quanto concerne la visione di persone decedute o di entità religiose, è possibile chiamare in causa fenomeni di aspettativa legati al contesto20. In sostanza la tendenza a vedere ciò che ci si aspetta di trovare in una determinata circostanza. Un’informazione sensoriale parziale e indefinita può diventare infatti, a seguito di processi psicologici proiettivi, qualcosa di completo e dotato di significato, come sappiamo dal test delle tavole di Rorschach. Non dobbiamo dimenticare che il nostro cervello cerca continuamente di fornire un’interpretazione rapida e coerente delle informazioni sensoriali che riceve, al fine di fornire un quadro stabile e di facile lettura della realtà a cui è sottoposto. La psicologia della Gestalt fornisce molti esempi al riguardo.
Nel momento in cui prendiamo consapevolezza del fatto che la percezione della vita quotidiana è il risultato di un processo di costruzione attiva della realtà, diventa relativamente semplice provare ad interpretare i resoconti fenomenici delle esperienze pre-morte come un’estensione naturale di questo processo cognitivo. In tal senso, certi tipi di esperienze pre-morte sarebbero il risultato di interpretazioni che cercano di fornire un quadro stabile ed intellegibile di informazioni sensoriali incomplete ed anomale[22], portando alla percezione di tunnel laddove vi è solo una stimolazione luminosa al centro del campo visivo, o alla percezione di sagome umane e persone decedute in presenza di input visivi frammentati, provenienti ad esempio dalla presenza dei membri dello staff medico.
I sostenitori delle interpretazioni ultraterrene delle esperienze di pre-morte sottolineano poi come le persone che hanno vissuto questo tipo di fenomeni tendano a condurre una vita più eticamente orientata una volta uscite dall’ospedale, leggendo questo miglioramento come un segnale della natura ‘divina’ delle visioni pre-morte. Tuttavia vi sono diversi studi che hanno documentato come anche il solo fatto di trovarsi vicino al punto di morire (senza alcuna esperienza di pre-morte) comporti una serie di cambiamenti del proprio stile di vita[23]. Non sarebbe quindi la visione di un tunnel ultraterreno, ma la paura di perdere la vita a determinare una serie di riflessioni ed una condotta più rispettosa di norme e convincimenti morali.
Su tutto questo dibattito c’è però una domanda cruciale che sembra sfuggire a chi vede nelle esperienze di pre-morte una prova di immortalità dell’anima. Anche assumendo che questo tipo di visioni siano la dimostrazione effettiva di una vita dopo la morte, non ci sarebbe alcuna garanzia che si tratti di vita eterna piuttosto che di una circoscritta in un breve arco di tempo, un periodo di limitata coscienza negli attimi appena successivi alla morte biologica. Le esperienze stesse avvengono in un arco di secondi o minuti. Così come il cervello può sopravvivere qualche minuto in assenza di supporto sanguigno, è teoricamente possibile supporre che la mente umana possa essere parzialmente dissociabile dal cervello, ma che non possa sopravvivere a lungo in assenza di substrato neuroanatomico. Le esperienze di pre-morte, in questo senso, non ci dicono nulla sull’immortalità dell’anima: nella migliore delle ipotesi ci potranno dire se alla morte del corpo corrisponde anche una contemporanea e biunivoca morte della mente.
Ad oggi non vi è nessuna prova del fatto che le esperienze avvengano in prossimità della morte. Potrebbero verificarsi in precedenza, quando il cervello è già danneggiato ma più attivo, o essere falsi ricordi che si generano al risveglio.
È un problema collegato al precedente. Se il cervello è compromesso e l’elettroencefalogramma è piatto, non si capisce quale substrato neurale possa immagazzinare tale esperienza per il successivo ricordo.
Probabilmente secondi o minuti. Anche ipotizzando l’intrigante scenario di un’anima che si separa dal corpo, l’unica conclusione che potremmo trarre è che essa può sopravvivere in assenza del corpo alcuni secondi o minuti.
“Vedere luci, vedere un tunnel, vedere una persona scomparsa” ...i resoconti riguardano per lo più esperienze visive. La vista è la modalità sensoriale più importante per l’essere umano. Tuttavia se l’esperienza di pre-morte riguardasse un’anima slegata dal corpo e dalle tradizionali modalità sensoriali umane, perché essa dovrebbe ancora percepire la realtà prevalentemente per vie visive?
A onor del vero parte del problema è anche di natura metodologica, i questionari atti ad individuare esperienze di pre-morte tendono a focalizzare l’attenzione su esperienze visive. Si rende necessaria in futuro maggior attenzione su sensazioni anche di altra natura (tattili, olfattive, cinestesiche..).
Lo studio delle esperienze di pre-morte è forse giunto al suo apice durante l’ultima decade. Numerose riviste di prestigio internazionale (ad esempio ‘The Lancet’, ‘Journal of Royal Society of Medicine’ e ‘Neurology’) si sono occupate di questo tema, pubblicando i risultati di studi condotti da gruppi di ricerca di tutto il mondo. Grazie a questi lavori oggi sappiamo che diverse caratteristiche descritte nelle esperienze di pre-morte hanno una componente organica e che questa potrebbe essere alla base del fenomeno.
Il dibattito accademico è tuttavia aperto e a rilanciare la sfida ha provveduto nel 2001 un gruppo di ricerca olandese[24]. Secondo lo staff diretto dal professor van Lommel, i fattori fisiologici in sé non sarebbero sufficienti a spiegare l’evento. La loro ricerca ha interessato 344 pazienti ricoverati in unità coronariche olandesi che erano stati rianimati con successo dopo essere stati vicini alla morte. A ciascuno di essi è stato chiesto di rispondere ad un questionario nei momenti successivi al risveglio, chiedendo loro di descrivere il periodo di incoscienza ed eventuali ricordi associati a tale periodo. Il 18% dei pazienti ha riportato alcune forme di ricordi indistinti e solo il 12% ha dichiarato di aver avuto un’esperienza più articolata. Secondo gli autori se le esperienze di pre-morte fossero il risultato di componenti esclusivamente fisiologiche, ci si sarebbe dovuto attendere che la maggior parte dei pazienti avesse vissuto un’esperienza di questo tipo, dal momento che tutti erano stati dichiarati in condizioni simili prima della definitiva rianimazione. Al contrario, ricordi associati allo stato di incoscienza sono stati osservati solo per un numero limitato di pazienti, il che colliderebbe con un’interpretazione delle esperienze di pre-morte dovute in maniera esclusiva a cambiamenti fisiologici. Interverrebbero quindi altre variabili, il cui nome e ruolo ci è tutt’ora sconosciuto.
Di recente Braithwaite[25] ha criticato la validità scientifica delle conclusioni avanzate dal gruppo di ricerca del prof. van Lommel. In particolare sono state avanzate quattro argomentazioni principali: 1) van Lommel e colleghi non hanno preso alcuna misura diretta dei livelli di anossia cerebrale (la mancanza cioè di ossigeno al cervello): la condizione di anossia sarebbe stata determinata indirettamente sulla base delle risposte ai questionari da parte dei pazienti e delle informazioni mediche relative al tipo di arresto cardiaco che avevano subito; 2) ciò che sarebbe realmente importante è la dinamica di cambiamento della quantità di ossigeno nel cervello piuttosto che i livelli complessivi di anossia raggiunti. I ricercatori si sarebbero soffermati su quest’ultimo parametro, di conseguenza non avrebbero raccolto le informazioni cliniche più rilevanti ai loro scopi; 3) l’eterogeneità e la variabilità individuale nella reazione alla diminuzione di ossigeno al cervello è stata ignorata dai ricercatori, pur essendo una componente che potrebbe giocare un ruolo chiave nello stabilire il grado di ‘vicinanza’ ad uno stato di morte cerebrale per ognuno dei pazienti; 4) per quale motivo solo il 18% dei pazienti ha vissuto esperienze di pre-morte? Se esse fossero davvero delle finestre sull’aldilà, non si capisce perché tale privilegio sarebbe concesso solo ad una percentuale limitata di persone.
Christopher French[26] ha inoltre rilevato un altro aspetto interessante. Van Lommel e colleghi hanno re-intervistato a distanza di due anni i pazienti che avevano partecipato allo studio - inclusi alcuni che non avevano dichiarato di aver vissuto esperienze di pre-morte - per valutare eventuali differenze nel tempo dei loro ricordi. Nel corso di queste nuove interviste è emerso che 4 dei 37 pazienti che avevano affermato di non avere memorie relative al periodo di incoscienza a distanza di due anni dichiaravano di ricordare eventi classificabili come esperienze di pre-morte! Se la proporzione di casi fosse stabile (4 su 37 corrisponde a circa il 10% dei casi), questo implicherebbe che molte altre persone che al risveglio non ricordano nulla finiscono in seguito per rappresentarsi eventi di questo tipo. Ciò è in contraddizione con la tendenza che abbiamo di avere ricordi accurati di un evento non appena questo si è verificato, perdendo progressivamente la nostra capacità di rievocarlo col passare del tempo. Al contrario, il fatto che alcuni pazienti abbiano rievocato esperienze di pre-morte solo a distanza di due anni sembra accreditare l’ipotesi della creazione di falsi ricordi, magari a seguito dei racconti di altri pazienti che avevano preso parte allo stesso studio.
Indubbiamente lo studio di van Lommel ha aperto un ampio dibattito all’interno della comunità scientifica: le critiche al lavoro non mancano, ma a giudicare dal numero di pubblicazioni su riviste specialistiche uscite a seguito della sua ricerca è innegabile che van Lommel sia riuscito nell’intento di mantenere vivo l’interesse dei ricercatori su un tema che fino a qualche decade fa era oggetto di interesse quasi esclusivo della parapsicologia non sperimentale.
Nel tentativo di trovare una risposta il più possibile esaustiva, nel 2008 ha avuto inizio un progetto internazionale tuttora in corso che unisce gli sforzi di diversi gruppi di ricerca. Il progetto è stato denominato AWARE - un acronimo inglese tratto dal nome esteso AWAreness during REsuscitation (acronimo mediaticamente fortunato perché ‘aware’ in inglese significa proprio ‘conscio, consapevole’) - e si propone di studiare i resoconti forniti da oltre 1000 pazienti sparsi nel mondo, diventando il primo studio nel campo con un numero di partecipanti così elevato. In uno dei vari esperimenti in programma, i ricercatori vogliono verificare se la sensazione di distacco dal proprio corpo è davvero un’allucinazione percettiva o riflette un reale allontanamento fisico.
A tal fine è stata messa a punto una procedura tanto semplice quanto ingegnosa. Sulla parete in corrispondenza dei letti della sala di rianimazione verrà attaccato un quadro; tale quadro non sarà visibile in alcun modo dalla prospettiva del paziente, a causa di apparecchiature e altri ostacoli presenti sopra al letto. Al contrario il quadro potrebbe essere visto solamente a un paio di metri di altezza, superati ostacoli e apparecchiature. Gli sperimentatori intervisteranno pazienti rianimati all’ultimo istante per individuare chi tra di loro dichiarerà di aver avuto esperienze di pre-morte durante lo stato di incoscienza. A quel punto il resoconto spontaneo dei pazienti verrà analizzato con attenzione, soprattutto nel caso in cui questi dovessero dichiarare di aver vissuto uno stato di dissociazione corporea. Molto spesso in questi casi le persone forniscono una descrizione piuttosto accurata di quello che ricordano di aver visto dall’alto della sala operatoria, ma non è facile capire quanto questa rifletta reali visioni oppure sia il risultato di inferenze più o meno consapevoli su quello che può essere accaduto.
In poche parole, se una persona è in pericolo di vita è probabile che lo staff medico sia agitato e attivo sul paziente, che vi siano chirurghi accanto al malato ed infermieri in secondo piano pronti ad assistere le richieste dei medici. La formazione di un falso ricordo a partire da questi elementi può portare ad un resoconto piuttosto veritiero, al punto da far credere che la persona abbia assistito davvero all’evento. Con la tecnica del quadro però il discorso cambia, e gli studiosi del progetto AWARE sono interessati a vedere se ci saranno pazienti che dichiareranno spontaneamente di aver visto dalla nuova prospettiva il quadro in questione. L’eventuale dimostrazione che alcune persone ricordano con esattezza la presenza e il contenuto del quadro potrebbe avere delle conseguenze radicali sul dibattito relativo alla natura delle esperienze di pre-morte.
Per quanto alcuni aspetti di questa ricerca possano far sorridere i lettori, non dobbiamo dimenticare che le metodologie e le procedure messe a punto dal progetto AWARE non hanno nulla da invidiare a quelle di altre ricerche che hanno permesso il progresso della scienza medica e psicologica. È solo l’ipotesi di ricerca ad essere poco ‘convenzionale’ (“Se le persone si separeranno dal corpo, potranno vedere il quadro vicino al soffitto”). E se il prezzo da pagare sarà solo lo sdegno degli scettici o le accuse dei fanatici religiosi, sarà comunque poca cosa in rapporto alle possibili implicazioni scientifiche, filosofiche, teologiche di un eventuale risultato positivo.
La paura della morte accomuna le persone di tutte le culture e tutti i tempi. Con l’autoironia che lo ha reso celebre, Woody Allen un giorno disse: “Non è che ho paura di morire, è che non voglio essere lì quando capiterà!”. I misteri associati alla morte possono spingere alla ricerca di una risposta che spesso si trova solo nelle pagine dei testi sacri. A volte, nel tentativo di mantenere una convinzione rassicurante, si finisce per vedere nella scienza una sorte di minaccia, anche quando il solo fine di questa è verificare delle ipotesi nel tentativo di confutarle ed eventualmente supportarle. Chi vede nel rigore metodologico una minaccia ai propri desideri di immortalità finisce per attribuire alla scienza la stessa falce che spera di aver sottratto alla morte.
È importante sottolineare come un’interpretazione psicobiologica delle esperienze di pre-morte non implichi di per sé che non possa esistere una qualche vita ultraterrena; da questo punto di vista scienza e religione non vanno viste in contraddizione: sono entrambe impegnate in uno sforzo di comprensione del creato, seppur con armi e armature differenti. Quello che la scienza può fare con efficacia è aiutare anche la religione a capire se quei fenomeni sensoriali che talvolta si manifestano in prossimità della morte siano una qualche prova di una dissociazione tra mente e corpo o al contrario - come suggerito da recenti ricerche - una serie di reazioni psicologiche e fisiologiche di una mente intrappolata in un cervello mortale.
Si ringraziano vivamente Cinzia Chiandetti, Marco Dadda, Laura Piffer e i revisori della rivista per i preziosi consigli che hanno contribuito alla realizzazione.
Anonimo
I misteri associati alla morte suscitano da sempre l’interesse dell’uomo. Le esperienze di pre-morte sono state spesso interpretate come prova di un’esistenza ultraterrena. La ricerca scientifica ci suggerisce tuttavia un quadro differente, ipotizzando un’origine psicologica e fisiologica di questi fenomeni (illustrazione: ‘Caronte’ di Paul Doré).
Teologi e filosofi hanno avanzato nei secoli diverse argomentazioni sull’esistenza di Dio e di una nuova vita dopo la morte, fornendo quelle risposte che la scienza non può fornire in questo campo. Tuttavia esiste un fenomeno legato al passaggio tra la vita e la morte che da decenni affascina i ricercatori, un tipo di esperienza sensoriale su cui la scienza può esprimersi adottando almeno in parte i suoi strumenti di indagine razionale, le cosiddette “esperienze pre-morte”[1],[2],[3].
La prima descrizione dettagliata delle esperienze pre-morte è stata fornita da Raymond Moody, che nel 1975 pubblicò un celebre libro in cui venivano riportati oltre un centinaio di casi di pazienti che avevano vissuto esperienze in apparenza inspiegabili al cospetto della morte[4].
Si trattava di persone che, a seguito di diverse circostanze, erano state dichiarate clinicamente morte, salvo poi, nei minuti immediatamente successivi alla diagnosi di morte, essere rianimate con successo. Tali pazienti, una volta coscienti, avevano riportato una serie di ricordi di eventi che a loro dire si erano verificati durante lo stato di incoscienza.
I resoconti erano incredibilmente simili tra loro, e testimoniavano la visione di luci, la percezione di melodie, la sensazione di essere all’interno di un tunnel, la visione di sagome umane, sino alla sensazione di essere separati dal proprio corpo, così da poter vedere dall’alto i medici durante il tentativo di rianimazione (si veda il BOX 1 per un elenco delle caratteristiche principali riportate in letteratura).
In seguito alla pubblicazione del libro di Moody, la ricerca medica ha annoverato un numero crescente di pazienti che riportavano simili esperienze. Questo è in parte dovuto alla maggior sensibilità di medici e opinione pubblica verso una tipologia di racconti che fino a pochi anni prima veniva frettolosamente catalogata come ‘confusione post-operatoria’. In aggiunta, con il progredire della scienza medica, le tecniche di rianimazione si sono affinate e ciò ha consentito di salvare un maggior numero di pazienti anche quando i criteri della morte clinica (elettroencefalogramma piatto, pupille dilatate, mancanza di respirazione ed attività cardiaca...) erano stati appena raggiunti.
La maggior parte di questi racconti descrive un quadro idilliaco di benessere e felicità che viene interpretato dai pazienti come il primo impatto con una vita ultraterrena. Essi indicano inoltre che questa esperienza ha avuto alcune conseguenze: le persone sono solite cambiare il proprio stile di vita, condurre un’esistenza più religiosa, meno timorosa della morte e conforme a norme etiche e morali che in precedenza venivano seguite meno attivamente. Esiste tuttavia anche una casistica di esperienze negative simili ad incubi[5]. Al riguardo sono state individuate tre categorie di esperienze negative.
La prima è la più frequente e include tutte le caratteristiche classiche (visione di un tunnel, luci, dissociazione corporea, ecc.) con l’eccezione del fatto che ad un certo punto i soggetti vivono la circostanza come pericolosa percependo una mancanza di controllo relativamente a ciò che sta avvenendo loro; il secondo tipo di esperienze negative comporta la sensazione di trovarsi in un vuoto completo, un buio assoluto dove non si percepisce altra presenza al di fuori di sé; l’ultimo tipo è decisamente poco frequente e comporta la visione di scenari infernali e creature demoniache nonché l’aver udito suoni spaventosi. Come è facile immaginare, se le esperienze di pre-morte positive avvicinano le persone ad una condotta etica e più religiosa, è stato documentato come quelle negative esasperino invece la paura della morte.
BOX 1
Per un riferimento completo delle fonti bibliografiche si veda [6]Caratteristiche ricorrenti delle esperienze pre-morte
- 1. Consapevolezza di essere morto
“Avevo capito che mi era successo qualcosa di grave e che ero morto”
- 2. Sensazione di piacere, euforia, benessere
“...tuttavia non ero triste o dolorante, mi sentivo euforico e circondato da un senso di gioia...”
- 3. Dissociazione corporea
“...riuscivo a vedere il personale medico lavorare su di me, ma io ero come sospeso. Era come se fossi regista della scena, non attore...”
- 4. Sensazione di essere in un tunnel
“...poi di fronte a me ho visto un tunnel buio e profondo, non riuscivo a capire dove portasse e cosa ci fosse al termine del tunnel...”
- 5. Percezione di una luce al centro della scena
“...c’era una luce davanti a me, un bagliore che non avevo mai visto prima d’ora...”
- 6. Percezione di ambienti paradisiaci o infernali
“...tutto intorno era come avevo immaginato, sapevo che stavo per andare in Paradiso...”
- 7. Visione di persone decedute, figure religiose o entità indefinite
“...improvvisamente ho visto una sagoma umana, inizialmente era indefinita, poi ho capito essere mio padre...”
- 8. Rivisitazione della propria vita
“...ho iniziato a ripensare a tutta la mia vita, una serie di flashback che non riuscivo a controllare, alcuni di questi eventi non li ricordavo più prima di quel momento...”
- 9. Diversa percezione del tempo
“...mi sentivo in un ambiente senza tempo. Potrei essere rimasto lì un minuto o un giorno, il tempo come lo intendiamo noi non aveva senso in quel luogo...”
- 10. Percezione di suoni e musiche
“...e c’erano suoni, melodie celestiali il cui timbro non saprei definire...”
Alcuni ricercatori[7],[8] hanno cercato di capire se il tipo di esperienza vissuta correli con una condotta di vita più o meno eticamente irreprensibile, in sostanza se nelle esperienze pre-morte vi sia qualche indizio di una sorta di ‘giudizio’, per cui chi ha seguito con attenzione dei precetti morali vivrà un’esperienza positiva mentre chi ha condotto un’esistenza moralmente più discutibile si troverà di fronte a paesaggi spaventosi. La risposta sembra essere negativa: non vi è nessuna correlazione tra lo stile di vita e il tipo di esperienze pre-morte raccontate dai partecipanti degli studi. In poche parole, chi ha precedenti penali di una certa gravità ha la stessa probabilità di incorrere in un’esperienza positiva o negativa.
Con questo ovviamente non si vuol dire che la ricerca abbia ‘dimostrato’ che la condotta che si mantiene in vita non abbia conseguenze su una qualche vita ultraterrena: quello che ci dice la scienza è semplicemente che lo stile di vita delle persone che hanno dichiarato di aver vissuto esperienze pre-morte non ha nulla a che vedere con la gradevolezza di tali esperienze. Sconfinando un po’ in vaghe speculazioni filosofico-teologiche, potremmo dire che 1) o le esperienze pre-morte non sono un primo passo nell’aldilà e la gradevolezza di queste esperienze dipende da fattori psicofisiologici tuttora poco conosciuti, 2) o le leggi che governano questo presunto aldilà sono diverse da quelle suggerite dalle religioni, per cui non siamo in grado di valutare la condotta morale delle persone con il metro usato da qualche altra entità e le nostre analisi statistiche sono basate su scale di valori fuorvianti.
Le interpretazioni scientifiche del fenomeno
Secondo diversi ricercatori le esperienze pre-morte potrebbero essere spiegate da una serie di cambiamenti fisiologici che insorgono in un cervello fortemente danneggiato, come a seguito della mancanza di ossigeno. È risaputo che in condizioni di stress - ad esempio negli stati di paura che accompagnano l’idea di morire - si assista ad un parziale rilascio di endorfine nel cervello, al fine di ridurre il dolore e indurre una sensazione di benessere, pur in contraddizione con lo stato di evidente difficoltà in cui versa l’organismo. Alcuni studiosi[9] ritengono che tale rilascio di endorfine potrebbe essere alla base di quella sensazione di benessere riportata dai pazienti durante le esperienze pre-morte (“Vedevo i medici su di me e capivo che la situazione era drammatica, ma mi sentivo bene ed ero invaso da un senso di pace”). Inoltre l’inibizione corticale associata alla mancanza di ossigeno al cervello potrebbe essere alla base della percezione di fenomeni visivi, come tunnel e luci[10],[11]. La corteccia visiva è infatti organizzata con un’alta concentrazione di neuroni al centro del campo visivo e un numero minore di neuroni alla periferia; di conseguenza un’attivazione anomala di tale regione potrebbe generare la percezione di una luce chiara al centro della scena e una progressiva diminuzione di chiarezza ai margini del campo visivo, creando una sorte di effetto-tunnel (“Tutto intorno era buio, ma vedevo una luce in fondo, credo fossi dentro un tunnel”).
La maggior parte delle argomentazioni a favore dell’interpretazione biologica delle esperienze di pre-morte è basata sul fatto che determinate regioni cerebrali sembrano giocare un ruolo chiave nell’insorgenza dei fenomeni riportati durante un’esperienza di questo tipo. Ad esempio è noto da tempo come il lobo temporale sia alla base dell’elaborazione di esperienze mistiche e religiose, al punto che la stimolazione elettrica in queste regioni è in grado di indurre allucinazioni, distorsioni della percezione corporea ed esperienze di distacco dal proprio corpo[12]. Il sistema limbico poi - parzialmente incluso nel lobo temporale - è coinvolto nella memoria a lungo termine e nel processamento delle emozioni, ed è stato ipotizzato2 che la mancanza di ossigeno in questa regione possa essere alla base della comparsa del fenomeno di rivisitazione della propria vita (i ricordi autobiografici e le relative emozioni associate ad essi).
Di recente il tema del ruolo del lobo temporale nelle esperienze di pre-morte è stato affrontato anche da due ricercatori dell’università dell’Arizona[13]. Gli studiosi hanno osservato l’attività elettroencefalica di persone che dichiaravano di aver avuto queste esperienze, confrontandola con quella di soggetti con una storia clinica simile, ma che non avevano vissuto lo stesso evento: i risultati hanno documentato come le persone che avevano avuto esperienze di pre-morte soffrivano maggiormente di disturbi epilettici, particolarmente concentrati nel lobo temporale. Gli autori dello studio ipotizzano che un’anomalia del funzionamento del lobo temporale potrebbe facilitare la comparsa di questo tipo di esperienze, suggerendo di fatto un’origine biologica.
In uno studio successivo, alcuni ricercatori[14] hanno reclutato alcune persone che avevano dichiarato di aver avuto esperienze di pre-morte, in particolare di aver percepito una luce avvolgente al centro della scena, e hanno registrato la loro attività cerebrale durante uno stato di meditazione in cui i soggetti dovevano cercare di rappresentarsi mentalmente questa luce. L’attività cerebrale è stata rilevata sia attraverso elettroencefalografia (EEG) che attraverso risonanza magnetica funzionale (fRMI): i risultati hanno documentato come lo stato meditativo fosse accompagnato da cambiamenti elettrici ed emodinamici di diverse regioni cerebrali, incluso ancora una volta il lobo temporale. È stata evidenziata anche un’attivazione di aree tradizionalmente implicate nell’elaborazione di emozioni positive e nella rappresentazione mentale di immagini ed esperienze spirituali, tutte componenti alla base delle sensazioni riportate nei casi di esperienze pre-morte.
Per quanto riguarda il fenomeno della dissociazione corporea, è doveroso sottolineare come questo non sia ignoto alle neuroscienze[15], ma rappresenti un tratto comune a diversi disturbi psichiatrici. I correlati neuroanatomici della dissociazione corporea sono stati in parte documentati nel 2007 attraverso la registrazione dell’attività cerebrale di un paziente di 63 anni che aveva dichiarato di poter rivivere questo fenomeno, e di essere in grado di saper indicare agli sperimentatori l’inizio e la fine di tale esperienza[16]. Al soggetto è stato chiesto di premere un bottone non appena iniziava il processo di separazione corporea mentre l’attivazione delle aree cerebrali veniva registrata tramite tomografia ad emissione di positroni (PET). Come nei precedenti studi, sembra che alla base di tale fenomeno sensoriale siano implicati dei circuiti neurali specifici, in particolare la giunzione temporo-parietale. In seguito una ricerca condotta a Bristol[17] ha documentato anche il coinvolgimento di un più vasto circuito neurale a livello fronto-parietale. In questo senso, il sentirsi ‘fuori dal corpo’ potrebbe non essere altro che il risultato paradossale del funzionamento di una parte del corpo stesso, il cervello.
Sempre nello stesso anno, un articolo uscito sulla celebre rivista Science ha documentato come si possa indurre sperimentalmente in laboratorio una sensazione di parziale dissociazione dell’io dal proprio corpo[18]. Ai partecipanti dello studio venivano dati degli occhiali particolari, che non permettevano di vedere davanti a loro. Al contrario, gli occhiali proiettavano la visione di due telecamere poste alle spalle del soggetto: le immagini della telecamera poste nel lato destro della sala venivano proiettate all’occhio destro, mentre le immagini dalla telecamera di sinistra venivano presentate all’occhio sinistro. La visione stereocinetica della stanza veniva preservata e i partecipanti finivano sostanzialmente per vedere il proprio corpo di spalle. A questo punto il ricercatore, tramite alcuni artifici sperimentali, provvedeva a fornire stimolazioni sul petto o alle spalle toccando i soggetti reali o virtuali (l’immagine cioè che i soggetti vedevano delle loro spalle senza toccare in realtà il corpo dei soggetti). I risultati hanno documentato che le persone - ingannate dalla prospettiva fornita dagli occhiali - ritenevano che anche le stimolazioni presentate al proprio ‘ologramma’ fossero state effettivamente presentate loro. In aggiunta, anche la registrazione della conduttanza cutanea (un indice psicofisiologico molto utilizzato nella ricerca) ha confermato l’esistenza di questa illusione sensoriale: i soggetti a quanto pare si sentivano mentalmente in una posizione diversa rispetto al proprio io corporeo, al punto che questo aveva finito per influenzare anche una risposta psicofisiologica! Nel complesso lo studio suggerisce come l’esperienza di dissociazione corporea possa essere interpretata come una sorta di illusione percettiva complessa: il fatto che sia possibile indurre artificialmente una parziale dissociazione tra la posizione corporea dell’individuo e quella psicologica (anche se meno eclatante di quella riportata nelle esperienze pre-morte) ci indica come la dissociazione corporea possa avvenire anche in circostanze molto lontane dalla morte, senza chiamare in causa concetti come “anima” e “immortalità”.
La ricerca scientifica si è focalizzata anche su altri aspetti psicologici, come i falsi ricordi. È possibile che alla base dell’elevata incidenza di esperienze di pre-morte riportata negli ultimi anni vi sia un processo di formazione non consapevole di falsi ricordi, a seguito del resoconto di altri pazienti rianimati in simili condizioni. Numerose ricerche sperimentali hanno documentato come il semplice fatto di immaginare un evento possa portare alla creazione di false memorie relative all’evento stesso[19]; per tale motivo è possibile ipotizzare che l’essere a conoscenza di un fenomeno noto come ‘esperienze di pre-morte’ possa aver portato alla creazione in alcuni soggetti di falsi ricordi in linea di continuità con i resoconti tradizionali.
È interessante notare al riguardo come la propensione a creare falsi ricordi correli statisticamente con alcuni tratti di personalità che vengono riportati di frequente nei pazienti che dichiarano di aver vissuto esperienze di pre-morte[20],[21]. Questo processo mentale potrebbe poi essere accentuato dalle difficili condizioni cliniche in cui versano pazienti che erano stati dichiarati clinicamente morti.
La visione di un tunnel potrebbe essere il risultato dell’anomala attivazione dei neuroni della corteccia visiva primaria in condizioni di salute critica. La corteccia visiva è infatti organizzata con un’alta concentrazione di neuroni al centro del campo visivo ed un numero minore in periferia; se essa viene danneggiata è probabile che i dettagli e la chiarezza del campo periferico vengano a mancare velocemente. Questo comporterebbe la percezione di una stimolazione luminosa solo al centro della scena, con la possibilità che il soggetto si senta davanti ad un tunnel che conduce ad uno scenario luminoso (Foto: C. Agrillo).
Anche ipotizzando che le esperienze si verifichino in uno stato completo di morte cerebrale, resterebbe da risolvere un importante dilemma legato al luogo in cui si conserverebbe il ricordo di queste visioni. Perché un evento possa essere ricordato, la memoria umana deve in primo luogo codificare l’esperienza ed elaborarla a livello neurale (almeno sulla base delle attuali conoscenze sulla mente). Applicato al caso delle esperienze pre-morte, questo implica che nel momento in cui si vive un tale fenomeno vi dovrebbe essere un’attività neurale almeno sufficiente per la rappresentazione e la successiva rievocazione dell’intero evento. Se il cervello fosse troppo danneggiato per compiere questo tipo di operazione, diventerebbe allora difficile spiegare come mai, una volta rianimati, i pazienti presentino circuiti neurali che hanno mantenuto tali informazioni in memoria.
Per quanto concerne la visione di persone decedute o di entità religiose, è possibile chiamare in causa fenomeni di aspettativa legati al contesto20. In sostanza la tendenza a vedere ciò che ci si aspetta di trovare in una determinata circostanza. Un’informazione sensoriale parziale e indefinita può diventare infatti, a seguito di processi psicologici proiettivi, qualcosa di completo e dotato di significato, come sappiamo dal test delle tavole di Rorschach. Non dobbiamo dimenticare che il nostro cervello cerca continuamente di fornire un’interpretazione rapida e coerente delle informazioni sensoriali che riceve, al fine di fornire un quadro stabile e di facile lettura della realtà a cui è sottoposto. La psicologia della Gestalt fornisce molti esempi al riguardo.
Nel momento in cui prendiamo consapevolezza del fatto che la percezione della vita quotidiana è il risultato di un processo di costruzione attiva della realtà, diventa relativamente semplice provare ad interpretare i resoconti fenomenici delle esperienze pre-morte come un’estensione naturale di questo processo cognitivo. In tal senso, certi tipi di esperienze pre-morte sarebbero il risultato di interpretazioni che cercano di fornire un quadro stabile ed intellegibile di informazioni sensoriali incomplete ed anomale[22], portando alla percezione di tunnel laddove vi è solo una stimolazione luminosa al centro del campo visivo, o alla percezione di sagome umane e persone decedute in presenza di input visivi frammentati, provenienti ad esempio dalla presenza dei membri dello staff medico.
I sostenitori delle interpretazioni ultraterrene delle esperienze di pre-morte sottolineano poi come le persone che hanno vissuto questo tipo di fenomeni tendano a condurre una vita più eticamente orientata una volta uscite dall’ospedale, leggendo questo miglioramento come un segnale della natura ‘divina’ delle visioni pre-morte. Tuttavia vi sono diversi studi che hanno documentato come anche il solo fatto di trovarsi vicino al punto di morire (senza alcuna esperienza di pre-morte) comporti una serie di cambiamenti del proprio stile di vita[23]. Non sarebbe quindi la visione di un tunnel ultraterreno, ma la paura di perdere la vita a determinare una serie di riflessioni ed una condotta più rispettosa di norme e convincimenti morali.
Su tutto questo dibattito c’è però una domanda cruciale che sembra sfuggire a chi vede nelle esperienze di pre-morte una prova di immortalità dell’anima. Anche assumendo che questo tipo di visioni siano la dimostrazione effettiva di una vita dopo la morte, non ci sarebbe alcuna garanzia che si tratti di vita eterna piuttosto che di una circoscritta in un breve arco di tempo, un periodo di limitata coscienza negli attimi appena successivi alla morte biologica. Le esperienze stesse avvengono in un arco di secondi o minuti. Così come il cervello può sopravvivere qualche minuto in assenza di supporto sanguigno, è teoricamente possibile supporre che la mente umana possa essere parzialmente dissociabile dal cervello, ma che non possa sopravvivere a lungo in assenza di substrato neuroanatomico. Le esperienze di pre-morte, in questo senso, non ci dicono nulla sull’immortalità dell’anima: nella migliore delle ipotesi ci potranno dire se alla morte del corpo corrisponde anche una contemporanea e biunivoca morte della mente.
BOX 2
Alcuni rilievi critici mossi ai sostenitori della natura ultraterrena delle esperienze pre-morte
Quando si verificano realmente le esperienze pre-morte?
Ad oggi non vi è nessuna prova del fatto che le esperienze avvengano in prossimità della morte. Potrebbero verificarsi in precedenza, quando il cervello è già danneggiato ma più attivo, o essere falsi ricordi che si generano al risveglio.
Dove vengono mantenuti i ricordi?
È un problema collegato al precedente. Se il cervello è compromesso e l’elettroencefalogramma è piatto, non si capisce quale substrato neurale possa immagazzinare tale esperienza per il successivo ricordo.
Quanto durano?
Probabilmente secondi o minuti. Anche ipotizzando l’intrigante scenario di un’anima che si separa dal corpo, l’unica conclusione che potremmo trarre è che essa può sopravvivere in assenza del corpo alcuni secondi o minuti.
Perché sono esperienze prevalentemente visive?
“Vedere luci, vedere un tunnel, vedere una persona scomparsa” ...i resoconti riguardano per lo più esperienze visive. La vista è la modalità sensoriale più importante per l’essere umano. Tuttavia se l’esperienza di pre-morte riguardasse un’anima slegata dal corpo e dalle tradizionali modalità sensoriali umane, perché essa dovrebbe ancora percepire la realtà prevalentemente per vie visive?
A onor del vero parte del problema è anche di natura metodologica, i questionari atti ad individuare esperienze di pre-morte tendono a focalizzare l’attenzione su esperienze visive. Si rende necessaria in futuro maggior attenzione su sensazioni anche di altra natura (tattili, olfattive, cinestesiche..).
Cosa ci riserva il futuro
Lo studio delle esperienze di pre-morte è forse giunto al suo apice durante l’ultima decade. Numerose riviste di prestigio internazionale (ad esempio ‘The Lancet’, ‘Journal of Royal Society of Medicine’ e ‘Neurology’) si sono occupate di questo tema, pubblicando i risultati di studi condotti da gruppi di ricerca di tutto il mondo. Grazie a questi lavori oggi sappiamo che diverse caratteristiche descritte nelle esperienze di pre-morte hanno una componente organica e che questa potrebbe essere alla base del fenomeno.
Il dibattito accademico è tuttavia aperto e a rilanciare la sfida ha provveduto nel 2001 un gruppo di ricerca olandese[24]. Secondo lo staff diretto dal professor van Lommel, i fattori fisiologici in sé non sarebbero sufficienti a spiegare l’evento. La loro ricerca ha interessato 344 pazienti ricoverati in unità coronariche olandesi che erano stati rianimati con successo dopo essere stati vicini alla morte. A ciascuno di essi è stato chiesto di rispondere ad un questionario nei momenti successivi al risveglio, chiedendo loro di descrivere il periodo di incoscienza ed eventuali ricordi associati a tale periodo. Il 18% dei pazienti ha riportato alcune forme di ricordi indistinti e solo il 12% ha dichiarato di aver avuto un’esperienza più articolata. Secondo gli autori se le esperienze di pre-morte fossero il risultato di componenti esclusivamente fisiologiche, ci si sarebbe dovuto attendere che la maggior parte dei pazienti avesse vissuto un’esperienza di questo tipo, dal momento che tutti erano stati dichiarati in condizioni simili prima della definitiva rianimazione. Al contrario, ricordi associati allo stato di incoscienza sono stati osservati solo per un numero limitato di pazienti, il che colliderebbe con un’interpretazione delle esperienze di pre-morte dovute in maniera esclusiva a cambiamenti fisiologici. Interverrebbero quindi altre variabili, il cui nome e ruolo ci è tutt’ora sconosciuto.
Di recente Braithwaite[25] ha criticato la validità scientifica delle conclusioni avanzate dal gruppo di ricerca del prof. van Lommel. In particolare sono state avanzate quattro argomentazioni principali: 1) van Lommel e colleghi non hanno preso alcuna misura diretta dei livelli di anossia cerebrale (la mancanza cioè di ossigeno al cervello): la condizione di anossia sarebbe stata determinata indirettamente sulla base delle risposte ai questionari da parte dei pazienti e delle informazioni mediche relative al tipo di arresto cardiaco che avevano subito; 2) ciò che sarebbe realmente importante è la dinamica di cambiamento della quantità di ossigeno nel cervello piuttosto che i livelli complessivi di anossia raggiunti. I ricercatori si sarebbero soffermati su quest’ultimo parametro, di conseguenza non avrebbero raccolto le informazioni cliniche più rilevanti ai loro scopi; 3) l’eterogeneità e la variabilità individuale nella reazione alla diminuzione di ossigeno al cervello è stata ignorata dai ricercatori, pur essendo una componente che potrebbe giocare un ruolo chiave nello stabilire il grado di ‘vicinanza’ ad uno stato di morte cerebrale per ognuno dei pazienti; 4) per quale motivo solo il 18% dei pazienti ha vissuto esperienze di pre-morte? Se esse fossero davvero delle finestre sull’aldilà, non si capisce perché tale privilegio sarebbe concesso solo ad una percentuale limitata di persone.
Christopher French[26] ha inoltre rilevato un altro aspetto interessante. Van Lommel e colleghi hanno re-intervistato a distanza di due anni i pazienti che avevano partecipato allo studio - inclusi alcuni che non avevano dichiarato di aver vissuto esperienze di pre-morte - per valutare eventuali differenze nel tempo dei loro ricordi. Nel corso di queste nuove interviste è emerso che 4 dei 37 pazienti che avevano affermato di non avere memorie relative al periodo di incoscienza a distanza di due anni dichiaravano di ricordare eventi classificabili come esperienze di pre-morte! Se la proporzione di casi fosse stabile (4 su 37 corrisponde a circa il 10% dei casi), questo implicherebbe che molte altre persone che al risveglio non ricordano nulla finiscono in seguito per rappresentarsi eventi di questo tipo. Ciò è in contraddizione con la tendenza che abbiamo di avere ricordi accurati di un evento non appena questo si è verificato, perdendo progressivamente la nostra capacità di rievocarlo col passare del tempo. Al contrario, il fatto che alcuni pazienti abbiano rievocato esperienze di pre-morte solo a distanza di due anni sembra accreditare l’ipotesi della creazione di falsi ricordi, magari a seguito dei racconti di altri pazienti che avevano preso parte allo stesso studio.
Indubbiamente lo studio di van Lommel ha aperto un ampio dibattito all’interno della comunità scientifica: le critiche al lavoro non mancano, ma a giudicare dal numero di pubblicazioni su riviste specialistiche uscite a seguito della sua ricerca è innegabile che van Lommel sia riuscito nell’intento di mantenere vivo l’interesse dei ricercatori su un tema che fino a qualche decade fa era oggetto di interesse quasi esclusivo della parapsicologia non sperimentale.
Nel tentativo di trovare una risposta il più possibile esaustiva, nel 2008 ha avuto inizio un progetto internazionale tuttora in corso che unisce gli sforzi di diversi gruppi di ricerca. Il progetto è stato denominato AWARE - un acronimo inglese tratto dal nome esteso AWAreness during REsuscitation (acronimo mediaticamente fortunato perché ‘aware’ in inglese significa proprio ‘conscio, consapevole’) - e si propone di studiare i resoconti forniti da oltre 1000 pazienti sparsi nel mondo, diventando il primo studio nel campo con un numero di partecipanti così elevato. In uno dei vari esperimenti in programma, i ricercatori vogliono verificare se la sensazione di distacco dal proprio corpo è davvero un’allucinazione percettiva o riflette un reale allontanamento fisico.
La sensazione di essere separati dal proprio corpo e di poter osservare gli eventi da una nuova prospettiva è una delle caratteristiche più ricorrenti delle esperienze di pre-morte (Foto: C. Agrillo).
In poche parole, se una persona è in pericolo di vita è probabile che lo staff medico sia agitato e attivo sul paziente, che vi siano chirurghi accanto al malato ed infermieri in secondo piano pronti ad assistere le richieste dei medici. La formazione di un falso ricordo a partire da questi elementi può portare ad un resoconto piuttosto veritiero, al punto da far credere che la persona abbia assistito davvero all’evento. Con la tecnica del quadro però il discorso cambia, e gli studiosi del progetto AWARE sono interessati a vedere se ci saranno pazienti che dichiareranno spontaneamente di aver visto dalla nuova prospettiva il quadro in questione. L’eventuale dimostrazione che alcune persone ricordano con esattezza la presenza e il contenuto del quadro potrebbe avere delle conseguenze radicali sul dibattito relativo alla natura delle esperienze di pre-morte.
Per quanto alcuni aspetti di questa ricerca possano far sorridere i lettori, non dobbiamo dimenticare che le metodologie e le procedure messe a punto dal progetto AWARE non hanno nulla da invidiare a quelle di altre ricerche che hanno permesso il progresso della scienza medica e psicologica. È solo l’ipotesi di ricerca ad essere poco ‘convenzionale’ (“Se le persone si separeranno dal corpo, potranno vedere il quadro vicino al soffitto”). E se il prezzo da pagare sarà solo lo sdegno degli scettici o le accuse dei fanatici religiosi, sarà comunque poca cosa in rapporto alle possibili implicazioni scientifiche, filosofiche, teologiche di un eventuale risultato positivo.
La paura della morte accomuna le persone di tutte le culture e tutti i tempi. Con l’autoironia che lo ha reso celebre, Woody Allen un giorno disse: “Non è che ho paura di morire, è che non voglio essere lì quando capiterà!”. I misteri associati alla morte possono spingere alla ricerca di una risposta che spesso si trova solo nelle pagine dei testi sacri. A volte, nel tentativo di mantenere una convinzione rassicurante, si finisce per vedere nella scienza una sorte di minaccia, anche quando il solo fine di questa è verificare delle ipotesi nel tentativo di confutarle ed eventualmente supportarle. Chi vede nel rigore metodologico una minaccia ai propri desideri di immortalità finisce per attribuire alla scienza la stessa falce che spera di aver sottratto alla morte.
È importante sottolineare come un’interpretazione psicobiologica delle esperienze di pre-morte non implichi di per sé che non possa esistere una qualche vita ultraterrena; da questo punto di vista scienza e religione non vanno viste in contraddizione: sono entrambe impegnate in uno sforzo di comprensione del creato, seppur con armi e armature differenti. Quello che la scienza può fare con efficacia è aiutare anche la religione a capire se quei fenomeni sensoriali che talvolta si manifestano in prossimità della morte siano una qualche prova di una dissociazione tra mente e corpo o al contrario - come suggerito da recenti ricerche - una serie di reazioni psicologiche e fisiologiche di una mente intrappolata in un cervello mortale.
Ringraziamenti
Si ringraziano vivamente Cinzia Chiandetti, Marco Dadda, Laura Piffer e i revisori della rivista per i preziosi consigli che hanno contribuito alla realizzazione.
Bibliografia
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