Da uno studio pubblicato dalla rivista medica Critical Care nel numero dell’8 aprile 2010 (The Effect of Carbon Dioxide on Near-Death Experiences in Out-of-Hospital Cardiac Arrest Survivors: A Prospective Observational Study) emerge che soggetti con elevato contenuto di biossido di carbonio nel sangue riferiscono di aver avuto esperienze identiche a quelle definite di pre-morte. Lo studio ha preso in esame cinquantadue pazienti colpiti da attacco cardiaco ricoverati in tre grandi ospedali. Di essi, undici riportavano esperienze quali muoversi verso una luce molto brillante, provare sensazioni di pace e gioia, e vivere momenti profondamente spirituali. Alcune ricerche indicano che su dieci sopravvissuti ad attacchi cardiaci, un numero di essi che va da uno a quattro ha riferito esperienze analoghe. La causa precisa rimane un mistero, ma questo nuovo studio fornisce un indizio.
Gli attacchi cardiaci si verificano quando l’apporto di sangue (e quindi di ossigeno) viene bloccato e non arriva al cuore, che smette di far circolare il sangue: come risultato, il cervello viene privato di ossigeno. A sua volta, questa circostanza fa aumentare il biossido di carbonio nel sangue. Il biossido di carbonio è tossico ad alte concentrazioni, a partire da circa l’1% di aria inalata (10.000 parti per milione). Le endorfine che inibiscono il dolore vengono rilasciate come risposta allo stress da attacco cardiaco; abbattono il dolore e possono causare euforia o allucinazioni.
La connessione tra la privazione di ossigeno nel cervello e le esperienze di quasi-morte è stata ipotizzata già molti anni fa. La ricercatrice inglese Susan Blackmore, autrice di Dying to Live: Near Death Experiences, fa notare che molte caratteristiche delle tipiche esperienze di quasi-morte (quali l’euforia e la sensazione di muoversi verso una luce bianca) sono anche sintomi della privazione di ossigeno. In effetti, è stato provato che diverse sostanze possono causare esperienze di quasi-morte o di distaccamento dal corpo (out-of-body experience), ivi inclusa la ketamina (un allucinogeno che viene usato principalmente come anestetico).
Anche se molti ritengono che le esperienze di quasi-morte ci forniscono una prova dell’esistenza della vita oltre la morte, il fatto che esse possano essere chimicamente indotte sembra indicarne una possibile origine naturale piuttosto che sovrannaturale.
Traduzione di Fara Di Maio
Articolo pubblicato su Skeptical Inquirer vol 34, n. 5. Si ringrazia l’editore per aver concesso il diritto di riproduzione.
Gli attacchi cardiaci si verificano quando l’apporto di sangue (e quindi di ossigeno) viene bloccato e non arriva al cuore, che smette di far circolare il sangue: come risultato, il cervello viene privato di ossigeno. A sua volta, questa circostanza fa aumentare il biossido di carbonio nel sangue. Il biossido di carbonio è tossico ad alte concentrazioni, a partire da circa l’1% di aria inalata (10.000 parti per milione). Le endorfine che inibiscono il dolore vengono rilasciate come risposta allo stress da attacco cardiaco; abbattono il dolore e possono causare euforia o allucinazioni.
La connessione tra la privazione di ossigeno nel cervello e le esperienze di quasi-morte è stata ipotizzata già molti anni fa. La ricercatrice inglese Susan Blackmore, autrice di Dying to Live: Near Death Experiences, fa notare che molte caratteristiche delle tipiche esperienze di quasi-morte (quali l’euforia e la sensazione di muoversi verso una luce bianca) sono anche sintomi della privazione di ossigeno. In effetti, è stato provato che diverse sostanze possono causare esperienze di quasi-morte o di distaccamento dal corpo (out-of-body experience), ivi inclusa la ketamina (un allucinogeno che viene usato principalmente come anestetico).
Anche se molti ritengono che le esperienze di quasi-morte ci forniscono una prova dell’esistenza della vita oltre la morte, il fatto che esse possano essere chimicamente indotte sembra indicarne una possibile origine naturale piuttosto che sovrannaturale.
Traduzione di Fara Di Maio
Articolo pubblicato su Skeptical Inquirer vol 34, n. 5. Si ringrazia l’editore per aver concesso il diritto di riproduzione.