"La sofferenza è un docente che non va mai in pensione. Eternamente in cattedra, sempre severa, a volte crudele e spietata, ha un immenso potere [...]. L'amore e la solidarietà possono aiutare gli altri ad uscire dalla sofferenza ma per fare questo occorre trasformare la sofferenza, cioè la spazzatura affinché divenga merce pregiata. Solo la forza spirituale può fare questo, solo la fede in Dio può rendere possibile questa alchemica trasformazione."
Così inizia la seconda parte dell'ultima fatica editoriale di Armando Pavese e la frase sintetizza bene l'idea di fondo contenuta nel libro. Pavese si occupa da 30 anni di ricerca nel campo delle motivazioni psicologiche dei fatti occulti e anche delle dinamiche psicologiche dei malati. Autore di numerosi saggi sull'argomento, è membro della Società Italiana di Psicologia della Religione e consulente nazionale del GRIS (Gruppo di Ricerca e Informazione Socio-Religiosa).
Nella prima parte del volume, Pavese racconta con dovizia di particolari il suo personale calvario attraverso la malattia iniziato nel lontano 1978 e protrattosi fino a oggi. E lo fa con distacco, quasi ne fosse un testimone esterno, e senza cedere mai al pietismo o all'autocommiserazione. L'autore accetta serenamente tutte le sofferenze che la sorte gli impone sorretto da una incrollabile fede cristiana. Come afferma nella presentazione: "La fede religiosa è un potente motore che anima il credente e gli fornisce una marcia in più che diventa operativa, soprattutto nella sofferenza e nella malattia, tramite la preghiera. Questa acquista due valenze: quella spirituale, che pone il sofferente a contatto con Dio e quella psicologica, che ha benefici sull'umore, sui modi di affrontare la vita e sul corpo".
Circa la valenza spirituale e il fatto che la fede possa influire sull'umore e sui modi di affrontare la vita ben poco si può dire. La fede è un fatto personale in cui l'unico arbitro è il soggetto stesso.
Riguardo alla presunta capacità che la fede possa avere benefici sul corpo, invece, usciamo dalla sfera squisitamente privata del soggetto e abbiamo a che fare con eventi che, se reali, devono essere dimostrabili dal punto di vista scientifico. Al di là delle esperienze personali narrate dall'autore (che come tutti i casi singoli non fanno testo in medicina), occorre chiedersi se esistono studi che dimostrino un effetto terapeutico della fede e della preghiera.
Intorno al 1970 venne pubblicato su una rivista medica un articolo dal titolo "Church attendance and healt" (Presenza in chiese e salute). L'autore dello studio sosteneva che esisteva una correlazione significativa tra l'abitudine a frequentare i luoghi di culto e lo stato di salute. I risultati dello studio vennero ampiamente pubblicizzati dai mezzi di stampa e ancora oggi capita di leggere notizie che fanno riferimento a essi. Tuttavia lo stesso autore dell'articolo, in una pubblicazione successiva, si rese conto di aver commesso un grossolano errore metodologico. Infatti, non aveva tenuto conto del fatto banale che chi versa in condizioni di salute critiche generalmente non esce di casa per andare in chiesa.
Altri ricercatori si sono impegnati per cercare di stabilire una correlazione tra condizioni di salute e pratiche religiose e gli studi su questo argomento pubblicati su riviste mediche, anche prestigiose, sono oramai numerosi. Nel 1998, uno studio patrocinato dal National Institute of Health e condotto da un gruppo di ricercatori della Duke University di Durham prese in esame lo stato di salute di un campione di persone dai 65 anni in su, esaminate tra il 1986 ed il 1993. Secondo gli autori dello studio chi frequentava regolarmente i luoghi di culto, pregava e leggeva testi sacri presentava valori della pressione sanguigna nettamente più bassi di chi non era praticante. Dallo studio risultava inoltre che non vi erano differenze in base al tipo di religione professata. Negli Stati Uniti esiste tra i medici una corrente che sostiene la Prayer therapy e in alcune facoltà universitarie sono stati istituiti corsi che trattano dei rapporti tra salute e religione.
Un articolo, pubblicato sulla prestigiosa rivista medica Lancet nel febbraio 1999, ha preso in considerazione numerosi studi diretti a mettere in relazione la preghiera e la salute. L'articolo pubblicato da Lancet mette fortemente in discussione i risultati di questi studi. In molti casi sono stati compiuti banali errori metodologici. Ad esempio, alcuni di questi studi sostenevano di aver riscontrato una significativa riduzione di molte patologie tra sacerdoti di varie religioni. Gli autori non avevano però tenuto conto dello stile di vita di questi religiosi che rappresenta sicuramente una causa più importante per valutare il loro stato di salute. Inoltre è molto difficile definire esattamente che cosa si intende per attività spirituale o religiosa e di conseguenza non è facile valutare i suoi eventuali effetti terapeutici. Infine gli autori dell'articolo di Lancet sottolineano i rischi che le affermazioni di questi studi possono comportare. Se qualcuno si convince effettivamente delle proprietà terapeutiche delle pratiche religiose può benissimo trascurare terapie più efficaci.
In ogni caso, ammesso che alcune correlazioni tra miglioramento dello stato di salute e pratiche religiose siano reali, potrebbero benissimo essere interpretate nell'ambito dell'effetto placebo, senza bisogno di tirare in ballo interventi sovrannaturali.
Quindi non sembra che l'effetto terapeutico della fede sostenuto da Pavese abbia mai ottenuto conferme scientifiche. Pavese, rifacendosi alla teoria della complessità, è tuttavia convinto che la fede sia il battito d'"ali di farfalla" capace di generare la guarigione. Di fronte alle sofferenze da lui patite non si può che provare un profondo rispetto per questa sua convinzione. È inoltre ammirevole il fatto che il libro sia stato scritto con l'intento dichiarato di aiutare gli altri malati. Vivere non è per niente facile. Ognuno di noi deve costantemente affrontare problemi talvolta molto ardui, sopportare sofferenze fisiche, momenti di sconforto, debolezze psicologiche e quant'altro. Qualunque mezzo possa contribuire a facilitare la nostra esistenza è benvenuto. Tuttavia la strada religiosa indicata da Pavese non è affatto l'unica, come invece l'autore sembra sottolineare, condiviso dagli autori della prefazione e dalla postfazione, rispettivamente un sacerdote missionario e una monaca di clausura. Leggendo il libro di Pavese non ho potuto fare a meno di pensare all'ultimo capitolo dell'ultimo libro (pubblicato postumo) del compianto Carl Sagan (Miliardi di miliardi, Baldini & Castoldi, Milano 1998) in cui il grande astronomo e divulgatore descrive la terribile malattia che lo porterà alla morte prematura nel 1996. Contrariamente a Pavese, Sagan affronta la sofferenza e l'idea della morte in un ottica completamente laica, senza bisogno di affidarsi a Dio e riesce a farlo con altrettanta serenità, lucidità e forza d'animo.
È chiaro che di fronte alla sofferenza, come di fronte alla vita, ognuno trova le risposte che meglio si adattano alla sua sensibilità, alla sua educazione e formazione culturale, al suo stato emotivo, ecc. È pertanto difficile e inopportuno fare commenti su quella che è la posizione personale di Pavese, come su quella di chiunque altro. In ogni caso Fede come terapia rimane una toccante testimonianza che chiunque voglia analizzare i meandri più reconditi della psicologia umana può trovare senza dubbio interessante.