Sembra paradossale sentire parlare nel terzo millennio di culto delle reliquie. Eppure, le cronache di tutti i giorni riferiscono di presunte manifestazioni paranormali: statuette che piangono sangue, immagini miracolose e apparizioni mariane.
Moltitudini di pellegrini che si recano, ancora oggi come nel Medioevo, a prostrarsi in adorazione di fronte a dita di santi, a denti di protomartiri o a brandelli di vestiti che si dice siano appartenuti a personaggi illustri della storia della chiesa. Se da un punto di vista squisitamente antropologico il fenomeno non ci sorprende più di tanto - esso, infatti, era presente nell'Antica Grecia, nell'Impero Romano, nella cultura ebraica dell'Antico Testamento e perfino nell'Islam - è perlomeno bizzarro come numerose reliquie vengano ancora oggi presentate o esposte come autentiche.
Già lo studioso francese J. Collins de Plancy sottolineò, agli inizi dell'800, le curiosità che rendevano ridicola tale manifestazione religiosa: se tutte le reliquie adorate fossero state autentiche avremmo avuto sei corpi di Maria Maddalena, due di Gregorio Magno con quattro teste e diciassette braccia di Sant'Andrea.
Per essere considerata autentica, almeno in ottica storiografica, una reliquia deve risalire all'epoca della morte della persona a cui si riferisce, grazie a una serie di documenti autentici e di testimonianze comprovate senza alcuna interruzione cronologica fino alla data del ritrovamento. Questo scriveva Paul Riant, probabilmente il maggiore studioso che si è occupato della traslazione di reliquie durante le crociate da oriente in occidente. Appare scontato che nessuna reliquia, che si fa risalire all'epoca di Cristo, può essere considerata autentica in base al criterio stabilito da Riant.
Nel Medioevo esisteva una classificazione ben precisa: un corpo, anche se non completamente intero, ma che comprendesse almeno testa, gambe e braccia, veniva classificato come reliquiae insignes. I cadaveri non completi erano detti reliquiae non insignes e i più pignoli le classificavano ulteriormente in notabiles, come le mani o i piedi, oppure in exiguae, come dita o denti. I fabbricanti di reliquie escogitarono per Gesù una brillante soluzione: visto che era risorto in cielo, in Terra Santa furono trovate altre reliquie: denti da latte, ciocche di capelli, peli di barba, unghie, il cordone ombelicale e il prepuzio della circoncisione. Erano i pezzi forti della compravendita di reliquie in pieno Medioevo, paragonabili come prestigio solo alle reliquie della Passione: chiodi, flagello, corona di spine, frammenti della croce, sindone e sudari, spugna, lancia e titulus crucis.
L'interesse mediatico per le reliquie della Passione di Cristo è tornato alla ribalta ultimamente non solo per il successo di pubblico di The Passion, il film di Mel Gibson, ma anche grazie alla pubblicazione dei risultati della datazione al carbonio 14 di un famosissimo reperto archeologico: il Titulus Crucis, appunto.
Si tratta dell'iscrizione apposta sulla croce di Gesù, che il Vangelo di Giovanni racconta fosse stata composta da Pilato: in essa, era riportato il motivo della crocifissione: "Gesù il Nazareno, il re dei Giudei... era scritta in ebraico, in latino e in greco" (Gv. 19,19-20). Il Titulus è attualmente conservato nella Basilica di Santa Croce a Roma. La tradizione vuole che a portarlo lì sia stata Elena, la madre dell'Imperatore Costantino, alla quale si ascrive la scoperta della Vera Croce. In realtà, i problemi storiografici sono molteplici. Ma andiamo con ordine.
A partire dalle testimonianze dei pellegrini che durante le crociate si recavano in Terra Santa ci sono arrivate notizie relative ad un Titulus conservato nel palazzo Bucoleon di Costantinopoli e traslato a Parigi sul finire del XIII secolo assieme ad altre reliquie della Passione. Scrive in proposito il vescovo Durand de Mende (†1296): "Tabula in qua Pilatus scripsit Iesus Nazarenus rex Iudeorum quam vidimus Parisiis in cappella regis Francorum". Ora il problema d'autencitià per la reliquia romana non è solo che c'era un Titulus a Parigi, ma che anche la cattedrale di Tolosa ne rivendicava il possesso di uno altrettanto autentico. Inoltre, l'iscrizione lignea nella Basilica di Santa Croce a Roma è stata "riscoperta" nel 1492, nascosta in un muro dentro una scatolina di piombo. Su di essa era ben visibile il sigillo del cardinale Gerardo, che sarebbe diventato papa Lucio II (1144-1145). Siamo quindi ben lontani dal criterio di autenticità elaborato da Riant. La storia, come già successo in altri casi di reliquie controverse come la sindone, aveva emesso il proprio verdetto: l'origine non poteva che essere medievale.
Ma questo non è bastato. Carsten Thiede e Matthew D'Ancona e successivamente l'ufologo Michael Hesemann hanno pubblicato libri e partecipato a convegni di ogni genere: il Titulus Crucis era certamente e senza alcun dubbio l'originale iscrizione pilatesca. Secondo loro, i migliori paleografi ed epigrafisti di greco, latino e aramaico del mondo erano concordi nell'assegnare al I secolo quel tipo di iscrizione. Hesemann, addirittura, concludeva i suoi contributi affermando che se il Titulus era originale lo erano anche le altre reliquie della Passione, tra cui la sindone. In barba alla documentazione storica che gli assegnava una data medievale, questi autori si spingevano nelle interpretazioni e nelle congetture di fonti ipotetiche e di silenzi secolari.
I due fisici italiani hanno utilizzato per il C14 due spettrometri di nuova generazione, sfruttando la stessa misurazione su tre campioni di controllo dei quali erano note le date storiche. I test hanno fornito un riscontro positivo sulla correttezza delle operazioni e hanno validato l'età calcolata in laboratorio del Titulus Crucis: 1020 ± 30 anni. Lo studio è stato pubblicato sul volume 44, n. 3 della rivista Radiocarbon, periodico specializzato dell'Università dell'Arizona.
L'età fornita dalle fonti storiche, dunque, coincide con quella radiocarbonica. L'ennesima reliquia medievale: l'ennesima frode sostenuta senza alcuna prova scientifica.
Antonio Lombatti
Scrittore, sindonologo