Piergiorgio Odifreddi è un personaggio fuori dal comune: insegna Logica presso le Università di Torino e di Cornell (USA); ha pubblicato saggi scientifici che l'hanno posto ai vertici mondiali della sua disciplina; ha pubblicato una serie di saggi divulgativi per Einaudi e Cortina; collabora con quotidiani come la Repubblica e La Stampa, e sta portando la scienza su vari media forte di uno spirito acuto e brillante e una cultura di una vastità rara. Suoi saggi sono disponibili all'indirizzo: www.vialattea.net/odifreddi
Il CICAP si fa promotore di una mentalità aperta e critica e di un modello culturale basato sulla razionalità e il metodo scientifico.
Nella difesa dello scetticismo il CICAP cerca di portare il metodo scientifico fuori dai ristretti strumenti divulgativi per farlo approdare su spazi di informazione più ampi. In questa attività incontriamo spesso pregiudizi verso la cultura scientifica.
Prendiamo spunto dal tuo saggio breve "Culture: una, nessuna o centomila?" e dal tuo ultimo libro, "Il computer di Dio" (Cortina Editore) per farti qualche domanda sull'argomento.
In "Matematici criminali", contenuto ne "Il computer di Dio", definisci la separazione tra cultura umanistica e scientifica come un anacronistico equivoco intellettuale.
Si tratta solo di un equivoco? Quali sono le radici del conflitto tra le culture, e soprattutto cosa permette il suo perpetuarsi?
È un equivoco perché la cultura è una sola, e le cosiddette culture umanistica e scientifica sono ciascuna una metà di un tutto. È una disputa senza senso, analoga a quella di chi dicesse di essere a favore di uno dei due emisferi del cervello, ma non dell'altro. In realtà, così come abbiamo bisogno di entrambi gli emisferi, abbiamo bisogno di entrambe le culture.
A mio parere, l'equivoco comunque esiste solo tra gli umanisti, che credono (o vorrebbero credere) che solo la cultura umanistica sia utile e necessaria. Non credo che ci siano esponenti della cultura scientifica che pensino nello stesso modo. Paradossalmente, però, questo può essere preso dagli umanisti come una prova del fatto che la ragione sta dalla loro parte.
La precarietà di questa divisione è testimoniata dai tanti pensatori che hanno percorso con successo entrambi i campi. Ci sono però alcuni punti importanti da spiegare:
Qual è l'essenza dei contrasti tra mondo umanistico e scientifico? A chi ne va attribuita la responsabilità?
I contrasti, come ho appena accennato, non ci sono. Ma sembra che ci siano, per due motivi contrapposti. da parte umanistica, si imputa alla scienza la mancanza di interesse verso l'uomo e i suoi bisogni più fondamentali. Da parte scientifica, spesso si fa di tutto per dar ragione a chi la pensa così: la scienza si identifica troppo spesso, e troppo strettamente, con la tecnologia e i relativi interessi commerciali. Ma questa è una degenerazione: il vero scopo della scienza è la conoscenza, non l'asservimento al potere economico (o di qualunque altro genere).
Quali sono i danni causati da questa scissione? Una politica culturale che tende a perpetuare questa presunta dicotomia che conseguenze potrebbe portare?
I danni li abbiamo sotto gli occhi, perché in Italia la divisione delle culture è il bel frutto della politica culturale dell'idealismo di inizio secolo. La scuola uscita dalla concezione di Croce e Gentile è il miglior esempio della separazione delle culture: l'umanesimo a chi deve dirigere la società, la scienza a chi deve lavorare.
Come possa oggi comandare, in un mondo tecnologico, chi sa soltanto leggere i classici latini e greci, è una bella domanda. E la risposta, non esaltante, la si vede nella classe dirigente italiana. E anche nei media, che ovviamente sono principalmente in mano agli umanisti. Per fare un esempio su tutti, persino i più noti giornalisti scientifici italiani, come Bianucci, sono laureati in lettere! Chiunque troverebbe ridicolo che la divulgazione dei classici fosse lasciata in mano agli elettrotecnici, ma il contrario non sembra stupire nessuno.
C'è il pericolo che la "guerra" si concluda con la disfatta di uno dei contendenti?
La disfatta può essere soltanto globale: si casca tutti insieme. Anzi, se è vero che le civiltà cadono quando la cultura su cui esse si basano non è più compresa dalla popolazione, ebbene, ci stiamo probabilmente avvicinando a grandi passi alla caduta della nostra civiltà. Perché siamo tutti degli idioti tecnologici, che usano strumenti meravigliosi senza sapere né come funzionano né a cosa servono. I telefonini, usati più o meno come i selvaggi usavano le sveglie (mettendosele al collo), sono solo l'ultimo esempio dell'abuso della tecnologia provocato dall'ignoranza dei suoi mezzi e dei suoi fini.
In "Culture: una, nessuna o centomila?" sostieni che le varie culture non sono che diverse facce di un'impresa intellettuale che le trascende tutte. Quali elementi sostengono l'ipotesi di unità profonda tra le culture?
Nessuno penserebbe che c'è una separazione di culture tra la matematica, la fisica, la chimica, la biologia, soltanto perché studiano aspetti diversi di un unico universo, a diversi livelli di complessità e di aggregazione. La stessa cosa vale per scienza e umanesimo: interessandosi alla natura, si arriva senza soluzione di continuità alla vita, all'uomo, alla coscienza, ai valori dell'umanesimo. La miglior prova che le culture non sono separate, è che non si capisce nemmeno dove potrebbe essere la linea di separazione!
Se esiste unità profonda tra le varie culture, come la si può far emergere?
Nel tuo saggio evidenzi la necessità di un processo di astrazione che non parta da un solo modello culturale. Ci sono segnali che questa impresa possa andare a buon fine?
Qui si tocca un tema leggermente diverso: il fatto, cioè, che di separazioni culturali, vere o fittizie, ce n'è più d'una. Non soltanto tra scienza e umanesimo, ma tra oriente e occidente, e tra nord e sud del mondo. Le incomprensioni sono tante, e per superare i provincialismi culturali di ogni tipo ci vuole molto studio e molta buona volontà.
Naturalmente, è più facile credere di avere in tasca la verità assoluta, e guardare gli altri dall'alto in basso.
Per arrivare a una cultura universale, degna di questo nome, bisogna lavorare sodo per capire le ragioni degli altri. Si tratta di aprirsi non solo alla scienza e all'umanesimo, ma anche alle culture di altri paesi e di altri popoli: altrimenti, si finisce di rimanere dei poveri provinciali, vittime del pregiudizio e della ristrettezza mentale. Quanto all'essere possibile, la risposta è semplice: si può, perché si deve.
Quale può essere il ruolo del CICAP in questo scenario? Quali i rischi da evitare?
Il rischio che il CICAP deve evitare è, sostanzialmente, di fare di ogni erba un fascio. La mia impressione, dall'esterno, è che spesso il CICAP professi un atteggiamento uguale e contrario a quello che vuole (giustamente) combattere: di fronte a gente che crede a tutto, non credere a niente. Una specie di integralismo scientista, da contrapporre a un integralismo fideista.
Tanto per fare un esempio, la questione delle medicine alternative è molto delicata. Da un lato, si rischia di rifiutare in blocco pratiche che si basano su esperienze secolari: il che equivale, sostanzialmente, a una sperimentazione scientifica. Dall'altro lato, si rischia di schierarsi aprioristicamente per la medicina ufficiale, dimenticando che neppure questa è una scienza: certamente, non nel senso in cui lo sono, ad esempio, la fisica e la chimica. Per non parlare degli interessi economici in gioco, che alimentano molti sospetti sulla buona fede dei ricercatori, dei medici e dei giornalisti scientifici.
La formazione umanista da sola non sembra dare strumenti sufficienti per l'analisi del mondo moderno. D'altronde neanche lo scientismo fornisce risposte soddisfacenti.
Grandi risultati sono stati invece conseguiti da personaggi (Gadda, Calvino, LeviS) che hanno superato queste divisioni.
Vale la pena di investire perché questa trasversalità diventi un fenomeno diffuso? C'è forse qualche rischio nascosto dietro l'angolo?
E se vale la pena di investire in questa direzione, come deve muoversi chi proviene dal fronte scientifico?
Mi sembra che i risultati più significativi non siano tanto negli esempi letterari citati, peraltro interessantissimi e a me molto cari, quanto in quelli scientifici. Per rimanere alla medicina, toccata sopra, o più in generale alle scienze del corpo e della mente, a me sembrano molto interessanti i tentativi di confronto fra culture ed esperienze diverse. Ad esempio, i periodici incontri fra il Dalai Lama e i monaci tibetani da un lato, e gli scienziati occidentali dall'altro. Leggere i resoconti di questi dialoghi è interessantissimo, e permette di vedere come entrambe le culture abbiano affrontato i problemi del corpo e della mente da punti di vista completamente diversi, ma complementari. Quest'esempio mostra che il dialogo fra culture diverse è possibile: sta a noi cercarlo e realizzarlo individualmente, nella nostra vita quotidiana.
Si ringraziano Giuliano Bettella e Andrea Ferrero
Il CICAP si fa promotore di una mentalità aperta e critica e di un modello culturale basato sulla razionalità e il metodo scientifico.
Nella difesa dello scetticismo il CICAP cerca di portare il metodo scientifico fuori dai ristretti strumenti divulgativi per farlo approdare su spazi di informazione più ampi. In questa attività incontriamo spesso pregiudizi verso la cultura scientifica.
Prendiamo spunto dal tuo saggio breve "Culture: una, nessuna o centomila?" e dal tuo ultimo libro, "Il computer di Dio" (Cortina Editore) per farti qualche domanda sull'argomento.
In "Matematici criminali", contenuto ne "Il computer di Dio", definisci la separazione tra cultura umanistica e scientifica come un anacronistico equivoco intellettuale.
Si tratta solo di un equivoco? Quali sono le radici del conflitto tra le culture, e soprattutto cosa permette il suo perpetuarsi?
È un equivoco perché la cultura è una sola, e le cosiddette culture umanistica e scientifica sono ciascuna una metà di un tutto. È una disputa senza senso, analoga a quella di chi dicesse di essere a favore di uno dei due emisferi del cervello, ma non dell'altro. In realtà, così come abbiamo bisogno di entrambi gli emisferi, abbiamo bisogno di entrambe le culture.
A mio parere, l'equivoco comunque esiste solo tra gli umanisti, che credono (o vorrebbero credere) che solo la cultura umanistica sia utile e necessaria. Non credo che ci siano esponenti della cultura scientifica che pensino nello stesso modo. Paradossalmente, però, questo può essere preso dagli umanisti come una prova del fatto che la ragione sta dalla loro parte.
La precarietà di questa divisione è testimoniata dai tanti pensatori che hanno percorso con successo entrambi i campi. Ci sono però alcuni punti importanti da spiegare:
Qual è l'essenza dei contrasti tra mondo umanistico e scientifico? A chi ne va attribuita la responsabilità?
I contrasti, come ho appena accennato, non ci sono. Ma sembra che ci siano, per due motivi contrapposti. da parte umanistica, si imputa alla scienza la mancanza di interesse verso l'uomo e i suoi bisogni più fondamentali. Da parte scientifica, spesso si fa di tutto per dar ragione a chi la pensa così: la scienza si identifica troppo spesso, e troppo strettamente, con la tecnologia e i relativi interessi commerciali. Ma questa è una degenerazione: il vero scopo della scienza è la conoscenza, non l'asservimento al potere economico (o di qualunque altro genere).
Quali sono i danni causati da questa scissione? Una politica culturale che tende a perpetuare questa presunta dicotomia che conseguenze potrebbe portare?
I danni li abbiamo sotto gli occhi, perché in Italia la divisione delle culture è il bel frutto della politica culturale dell'idealismo di inizio secolo. La scuola uscita dalla concezione di Croce e Gentile è il miglior esempio della separazione delle culture: l'umanesimo a chi deve dirigere la società, la scienza a chi deve lavorare.
Come possa oggi comandare, in un mondo tecnologico, chi sa soltanto leggere i classici latini e greci, è una bella domanda. E la risposta, non esaltante, la si vede nella classe dirigente italiana. E anche nei media, che ovviamente sono principalmente in mano agli umanisti. Per fare un esempio su tutti, persino i più noti giornalisti scientifici italiani, come Bianucci, sono laureati in lettere! Chiunque troverebbe ridicolo che la divulgazione dei classici fosse lasciata in mano agli elettrotecnici, ma il contrario non sembra stupire nessuno.
C'è il pericolo che la "guerra" si concluda con la disfatta di uno dei contendenti?
La disfatta può essere soltanto globale: si casca tutti insieme. Anzi, se è vero che le civiltà cadono quando la cultura su cui esse si basano non è più compresa dalla popolazione, ebbene, ci stiamo probabilmente avvicinando a grandi passi alla caduta della nostra civiltà. Perché siamo tutti degli idioti tecnologici, che usano strumenti meravigliosi senza sapere né come funzionano né a cosa servono. I telefonini, usati più o meno come i selvaggi usavano le sveglie (mettendosele al collo), sono solo l'ultimo esempio dell'abuso della tecnologia provocato dall'ignoranza dei suoi mezzi e dei suoi fini.
In "Culture: una, nessuna o centomila?" sostieni che le varie culture non sono che diverse facce di un'impresa intellettuale che le trascende tutte. Quali elementi sostengono l'ipotesi di unità profonda tra le culture?
Nessuno penserebbe che c'è una separazione di culture tra la matematica, la fisica, la chimica, la biologia, soltanto perché studiano aspetti diversi di un unico universo, a diversi livelli di complessità e di aggregazione. La stessa cosa vale per scienza e umanesimo: interessandosi alla natura, si arriva senza soluzione di continuità alla vita, all'uomo, alla coscienza, ai valori dell'umanesimo. La miglior prova che le culture non sono separate, è che non si capisce nemmeno dove potrebbe essere la linea di separazione!
Se esiste unità profonda tra le varie culture, come la si può far emergere?
Nel tuo saggio evidenzi la necessità di un processo di astrazione che non parta da un solo modello culturale. Ci sono segnali che questa impresa possa andare a buon fine?
Qui si tocca un tema leggermente diverso: il fatto, cioè, che di separazioni culturali, vere o fittizie, ce n'è più d'una. Non soltanto tra scienza e umanesimo, ma tra oriente e occidente, e tra nord e sud del mondo. Le incomprensioni sono tante, e per superare i provincialismi culturali di ogni tipo ci vuole molto studio e molta buona volontà.
Naturalmente, è più facile credere di avere in tasca la verità assoluta, e guardare gli altri dall'alto in basso.
Per arrivare a una cultura universale, degna di questo nome, bisogna lavorare sodo per capire le ragioni degli altri. Si tratta di aprirsi non solo alla scienza e all'umanesimo, ma anche alle culture di altri paesi e di altri popoli: altrimenti, si finisce di rimanere dei poveri provinciali, vittime del pregiudizio e della ristrettezza mentale. Quanto all'essere possibile, la risposta è semplice: si può, perché si deve.
Quale può essere il ruolo del CICAP in questo scenario? Quali i rischi da evitare?
Il rischio che il CICAP deve evitare è, sostanzialmente, di fare di ogni erba un fascio. La mia impressione, dall'esterno, è che spesso il CICAP professi un atteggiamento uguale e contrario a quello che vuole (giustamente) combattere: di fronte a gente che crede a tutto, non credere a niente. Una specie di integralismo scientista, da contrapporre a un integralismo fideista.
Tanto per fare un esempio, la questione delle medicine alternative è molto delicata. Da un lato, si rischia di rifiutare in blocco pratiche che si basano su esperienze secolari: il che equivale, sostanzialmente, a una sperimentazione scientifica. Dall'altro lato, si rischia di schierarsi aprioristicamente per la medicina ufficiale, dimenticando che neppure questa è una scienza: certamente, non nel senso in cui lo sono, ad esempio, la fisica e la chimica. Per non parlare degli interessi economici in gioco, che alimentano molti sospetti sulla buona fede dei ricercatori, dei medici e dei giornalisti scientifici.
La formazione umanista da sola non sembra dare strumenti sufficienti per l'analisi del mondo moderno. D'altronde neanche lo scientismo fornisce risposte soddisfacenti.
Grandi risultati sono stati invece conseguiti da personaggi (Gadda, Calvino, LeviS) che hanno superato queste divisioni.
Vale la pena di investire perché questa trasversalità diventi un fenomeno diffuso? C'è forse qualche rischio nascosto dietro l'angolo?
E se vale la pena di investire in questa direzione, come deve muoversi chi proviene dal fronte scientifico?
Mi sembra che i risultati più significativi non siano tanto negli esempi letterari citati, peraltro interessantissimi e a me molto cari, quanto in quelli scientifici. Per rimanere alla medicina, toccata sopra, o più in generale alle scienze del corpo e della mente, a me sembrano molto interessanti i tentativi di confronto fra culture ed esperienze diverse. Ad esempio, i periodici incontri fra il Dalai Lama e i monaci tibetani da un lato, e gli scienziati occidentali dall'altro. Leggere i resoconti di questi dialoghi è interessantissimo, e permette di vedere come entrambe le culture abbiano affrontato i problemi del corpo e della mente da punti di vista completamente diversi, ma complementari. Quest'esempio mostra che il dialogo fra culture diverse è possibile: sta a noi cercarlo e realizzarlo individualmente, nella nostra vita quotidiana.
Si ringraziano Giuliano Bettella e Andrea Ferrero