Sapevate che in Giappone esistono statuette di terracotta preistoriche che raffigurano visitatori alieni in tuta da astronauta? Questo almeno è ciò che si legge in molti siti di fantarcheologia, che presentano queste statuette, chiamate dogū, come la prova dell'antica presenza di civiltà extraterrestri sul nostro pianeta. Se prendiamo come esempio uno di questi siti[1], le caratteristiche “astronautiche” delle statuette dogū sono descritte come «molteplici ed evidenti»:
1) un casco munito di una visiera sagomata per schermare il passaggio della luce solare;
2) un filtro per la respirazione all’altezza della bocca;
3) un collare di collegamento tra il casco e la tuta;
4) piccole tenaglie manipolatrici montate su teste snodate, al posto delle mani;
5) valvole di raccordo per tubi disposte sul petto della tuta.
Uomini del neolitico non avrebbero di certo potuto immaginare e mettere insieme una tale mole di dettagli tecnologici di tute spaziali, se non li avessero osservati direttamente e da vicino.
L'ipotesi che i dogū rappresentassero antichi astronauti fu resa celebre da autori russi come Alexander Kazantsev e Vjaceslav Zajtsev negli anni Sessanta, ma i viaggi spaziali dell'antichità sono al centro di un intero filone della fantarcheologia, chiamato appunto degli “antichi astronauti”. Un esempio simile a quello delle statuette dogū, ma molto più conosciuto, è il cosiddetto “astronauta di Palenque”, un bassorilievo Maya che mostrerebbe un astronauta nell'atto di guidare la sua navicella spaziale, con tanto di comandi e motore[2].
Il principale sostenitore della teoria degli antichi astronauti è lo scrittore svizzero Erich von Däniken, autore di decine di libri sull’argomento, vincitore di un Premio Ig Nobel per la letteratura e ideatore perfino di un parco dei divertimenti pseudoscientifico, lo Jungfrau Park di Interlaken (precedentemente noto come Mystery Park), che è stato definito dagli scienziati svizzeri «una Černobyl culturale».
Secondo von Däniken e i suoi colleghi, gli alieni volanti del passato hanno lasciato tracce anche delle loro “piste di atterraggio”. Si tratta delle famose “linee di Nazca”, sulla costa desertica del Perù meridionale: disegni lunghi centinaia di metri, ottenuti scavando la superficie rocciosa più scura e facendo emergere quella più chiara del terreno desertico sottostante. Nel libro Gli extraterrestri torneranno von Däniken suggerisce che i disegni di Nazca «potrebbero anche essere stati costruiti secondo le istruzioni ricevute da un velivolo» e naturalmente la possibilità non ci mette molto a trasformarsi in certezza: «vista dall'alto, l'impressione precisa che mi ha fatto la piana di Nazca, lunga sessanta chilometri, è stata quella di un aeroporto».
Le discussioni sugli antichi astronauti ci servono per aggiungere un nuovo elemento alla nostra affollata cassetta degli attrezzi. Per una volta sarà uno strumento pratico anziché filosofico: lo abbiamo chiamato “contestualizzatore” (ma accettiamo suggerimenti per trovare un nome più orecchiabile).
Per capire come usare il contestualizzatore cominciamo con l'approfondire un po' la storia delle statuette dogū. Sono piccole figure umane e animali in terracotta, che risalgono al periodo Jōmon (10.000 a.C. - 300 a.C.). Ne sono state ritrovate circa 20.000, la maggior parte danneggiate, con gli arti tagliati o rotti; le dimensioni vanno da pochi centimetri a mezzo metro di altezza. Le più antiche sono molto piccole e molto semplici; intorno al 4000 a.C. cominciano ad avere braccia, gambe e teste, e a partire dal 3000 a.C. i volti sono completamente formati. I dogū hanno le forme più svariate: ce ne sono con le corna, con la testa piatta o triangolare, con le gambe arcuate, che indossano corsetti o ginocchiere, che reggono vasi. Tutti i dogū sono stilizzati: non si tratta di rappresentazioni naturalistiche. A che cosa servivano? Il dibattito è ancora aperto. Negli anni Sessanta la teoria più accreditata era quella della “Grande Madre”, una divinità femminile legata alla fertilità. Oggi questa teoria ha perso consensi e alcuni studiosi ipotizzano che i dogū fossero semplici giocattoli. Forse potevano svolgere entrambe le funzioni: quello che è certo è che la teoria “astronautica” non ha alcun seguito presso gli archeologi.
Ora che sappiamo queste cose, possiamo rivedere criticamente la citazione che abbiamo messo all'inizio e riconoscere alcuni comportamenti tipici della fantarcheologia.
Prima di tutto, i fantarcheologi descrivono immagini reali, che però fanno parte di una cultura a loro estranea. Senza conoscere i contesti religiosi, artistici e storici delle immagini nelle culture che le hanno prodotte, non sono in grado di interpretarle correttamente e il modo in cui le descrivono ci dice molto di più su quello che sta nella loro testa piuttosto che in quella degli antichi artisti che le produssero. Come scrive Kenneth L. Feder, queste descrizioni assomigliano molto di più al test di Rorschach che a un'analisi scientifica[3].
Ci viene detto che «uomini del neolitico non avrebbero di certo potuto immaginare e mettere insieme una tale mole di dettagli tecnologici» ma in realtà le statue dogū sono state prodotte per migliaia di anni, cominciando da forme semplici e arrivando poco a poco a raffigurazioni molto più complesse. Se non ci si limita agli esemplari che vengono mostrati di solito, si scopre che le statuette sono molto diverse una dall'altra, che sono volutamente non realistiche e che è semplicemente per caso che alcune di esse possono assomigliare (ai nostri occhi) ad astronauti. Gli archeologi non sono in grado di decifrare il significato di tutti i simboli, ma ci sono delle ipotesi: per esempio, secondo l'archeologo Philippe Dallais, le incisioni sul corpo della statuetta incriminata, che i fantarcheologi interpretano come parti della tuta spaziale, rappresentano dei tatuaggi. La “visiera sagomata” è soggetta a diverse interpretazioni: potrebbe rappresentare gli occhi dei neonati, oppure una maschera usata per ridurre l'esposizione ai raggi solari, come quelle diffuse tra gli Inuit fin dall'antichità (la zona in cui sono stati trovati questi esemplari è soggetta in inverno a pesantissime nevicate). In ogni caso esistono altri artefatti con una simile rappresentazione degli occhi, come la maschera di Agamennone o le statue di argilla di Santarém, in Brasile.
Lo stesso problema di non riconoscere i simboli si presenta con von Däniken, che non conosce il contesto culturale di Palenque e quindi non può sapere che quello che a lui sembra un motore è in realtà il Mostro della Terra e che altri simboli che lui interpreta in modo fantasioso sono molto comuni nell'arte Maya e hanno un significato ben noto agli specialisti.
In secondo luogo, i fantarcheologi mostrano tipicamente un solo esemplare del manufatto misterioso, che sembra spuntare dal nulla e può in effetti apparire difficile da spiegare, preso isolatamente. Non citano invece i molti altri esemplari che aiuterebbero a capire come quell'oggetto si è sviluppato fino ad assumere quel particolare aspetto. Come abbiamo visto prima, le statue dogū sono ventimila e hanno le forme più varie: soltanto alcune statue accuratamente selezionate possono ricordare degli astronauti, le altre no, o perché sono molto semplici (quelle più antiche) o perché, pur essendo complesse, rappresentano figure completamente diverse. Tra l'altro, la tradizione di realizzare figure umanoidi in terracotta è molto comune nel Neolitico: figure analoghe di età analoga e di aspetto molto variabile sono state trovate in tutto il mondo, in luoghi lontani tra loro come Messico, Turchia, Ecuador, Romania ed Egitto. Non si tratta di oggetti senza precedenti, come vengono presentati.
Analogamente, il bassorilievo di Palenque non è affatto l'unico oggetto con quelle caratteristiche, ma si inserisce in un filone artistico: se invece di prendere proprio quello si scelgono altri bassorilievi analoghi, scompaiono le somiglianze (molto vaghe) con un'astronave, ma rimangono gli stessi simboli comuni nella cultura Maya dei quali von Däniken aveva frainteso il senso.
Proprio von Däniken è un maestro nell'arte di decontestualizzare i manufatti archeologici e fa la stessa cosa con le piramidi egizie, che in realtà non comparvero affatto “all'improvviso” come sostiene lui, ma si svilupparono gradualmente nell'arco di migliaia di anni, prima con le mastabe, semplici blocchi squadrati, poi con le piramidi a gradoni e infine con le piramidi a facce lisce. A volte la cattiva abitudine di selezionare gli esemplari favorevoli arriva all'estremo, come nel caso del famoso “jet precolombiano” che in realtà è uno dei pochi oggetti nella ricca collezione del Museo dell'Oro di Bogotá ad assomigliare a un aereo: se si mostra la collezione completa, è facile capire che si tratta di animali variamente stilizzati (insetti, pesci, uccelli, lucertole, pipistrelli, rane e gatti).
Ecco perché di fronte a oggetti apparentemente inspiegabili bisogna usare il “contestualizzatore” per riportarli nel contesto in cui sono stati concepiti: cioè non dobbiamo chiederci che cosa queste raffigurazioni sembrano a noi, che siamo immersi in una determinata cultura, ma che cosa avesse in mente l'autore, che viveva in un contesto storico, artistico e religioso completamente diverso dal nostro. Il problema del contesto si capisce bene nel caso del “jet precolombiano” di Bogotá, che ha cominciato a essere interpretato come un aereo soltanto nel dopoguerra, dopo l'invenzione dei jet: fino a quel momento tutti lo avevano visto come un animale stilizzato e nessuno si era chiesto se potesse significare qualcos'altro, dato che il contesto culturale non era ancora cambiato abbastanza rispetto a quello precolombiano da indurre un'interpretazione diversa.
Ma il contestualizzatore si può anche puntare in una direzione diversa, per ottenere altri risultati interessanti. Per spiegarlo introduciamo un altro elemento fondamentale della fantarcheologia: l'etnocentrismo europeo.
Gli oggetti che secondo i fantarcheologi erano troppo complessi per poter essere opera della civiltà locale si trovano quasi sempre al di fuori dell'Europa: i dogū sono in Asia, i jet precolombiani e le linee di Nazca in Centroamerica, le piramidi e la Sfinge in Africa... L'archeologo Kenneth L. Feder si è divertito a classificare la collocazione geografica degli esempi citati nel libro Gli extraterrestri torneranno (vedere tabella 1): soltanto il 4% degli esempi riguarda l'Europa[4]. I fantarcheologi non si chiedono mai chi aiutò i micenei a costruire il grande tempio di Cnosso, i Greci antichi a costruire il Partenone, o i Romani a costruire il Colosseo, monumenti altrettanto grandiosi di quelli che colpiscono tanto la loro immaginazione. Come mai? È semplice, perché nessuno mette in dubbio che i Greci e i Romani fossero in gamba e sapessero fare queste cose da soli.
Anzi, gli occidentali sono vagamente orgogliosi di queste opere, come a volte capita a noi italiani nei confronti degli antichi Romani: non a caso Mussolini autorizzò gli scavi del Foro di Traiano per celebrare la gloria riscoperta dell'Italia. Invece l'Egitto e il Centroamerica di adesso sono aree povere e instabili. Come potevano gli antenati di questi popoli essere così progrediti da costruire monumenti che richiedevano buone conoscenze matematiche e scientifiche senza alcun aiuto?
In genere l'etnocentrismo dei fantarcheologi non è dichiarato, ma a volte sconfina nel razzismo, più o meno palese: nel libro Impronte degli dei, Graham Hancock sottolinea più volte (con argomenti dubbi) che il dio Inca Wiraqocha doveva essere di aspetto caucasico, con gli occhi azzurri e la pelle chiara, mentre il solito von Däniken arriva a chiedersi, nel libro Signs of the Gods? «Forse la razza nera fu un fallimento e gli extraterrestri ne cambiarono il DNA con l'ingegneria genetica per poi programmare una razza bianca o gialla?»
Siamo abituati a considerare l'etnocentrismo e il razzismo di Hancock e von Däniken come una caratteristica della pseudoscienza, ma in realtà i primi lavori antropologici e etnografici manifestavano gli stessi pregiudizi. Per esempio, per gran parte dell'Ottocento i nativi americani furono considerati troppo “primitivi” per poter essere gli autori degli antichi tumuli e delle impressionanti piramidi di terra presenti nella pianura del Mississippi: il presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln, per esempio, credeva che questi monumenti fossero stati costruiti da un antico popolo di giganti.
Gli scienziati erano così refrattari ad accettare l'idea che i nativi americani avessero costruito i tumuli, che avevano preferito ipotizzare che un popolo europeo più avanzato (la “razza bianca perduta”) avesse scoperto l'America molto tempo prima di Colombo e avesse realizzato queste strutture.
Alla fine dell'Ottocento la comunità scientifica si convinse che i tumuli erano stati costruiti dai nativi americani, ma l'idea che fosse esistito un altro popolo rimase nella cultura popolare e contribuì a generare l'attuale fantarcheologia. Gli antichi alieni di Hancock e von Däniken possono essere visti come la versione moderna della “razza bianca perduta” e, come abbiamo visto, ne mantengono ancora qualche caratteristica.
Tutto questo serve a sottolineare l'importanza che hanno i pregiudizi nell'interpretazione dei dati. Come fece notare Stephen Jay Gould, l'idea della superiorità occidentale e del ruolo centrale del cervello nell'evoluzione umana impedirono per molto tempo di scoprire la frode dell'Uomo di Piltdown[5].
Allo stesso modo, la frode delle Tavole di Davenport fu molto popolare tra chi non accettava l'idea che i tumuli fossero stati costruiti dai nativi americani. In altre parole, sottolinea Amelia Boaks, i bias culturali sono ancora più importanti dell'abilità del falsario nel determinare il successo delle frodi[6], dato che anche gli scienziati sono condizionati dai loro pregiudizi.
Ecco allora che il contestualizzatore non va puntato solo verso gli oggetti antichi ma anche verso gli autori moderni: qual è il loro retroterra culturale? perché sono affezionati a determinate idee? Quali sono, in altre parole, i bias culturali che impediscono loro di accettare le evidenze empiriche?
Non solo la fantarcheologia, ma anche le altre pseudoscienze tendono a portare con sé dei pregiudizi che sono fondamentali per la loro popolarità[7]: portare allo scoperto questi pregiudizi è utile per comprendere la diffusione delle teorie che li trasmettono e per tentare di contrastarle.
1) un casco munito di una visiera sagomata per schermare il passaggio della luce solare;
2) un filtro per la respirazione all’altezza della bocca;
3) un collare di collegamento tra il casco e la tuta;
4) piccole tenaglie manipolatrici montate su teste snodate, al posto delle mani;
5) valvole di raccordo per tubi disposte sul petto della tuta.
Uomini del neolitico non avrebbero di certo potuto immaginare e mettere insieme una tale mole di dettagli tecnologici di tute spaziali, se non li avessero osservati direttamente e da vicino.
L'ipotesi che i dogū rappresentassero antichi astronauti fu resa celebre da autori russi come Alexander Kazantsev e Vjaceslav Zajtsev negli anni Sessanta, ma i viaggi spaziali dell'antichità sono al centro di un intero filone della fantarcheologia, chiamato appunto degli “antichi astronauti”. Un esempio simile a quello delle statuette dogū, ma molto più conosciuto, è il cosiddetto “astronauta di Palenque”, un bassorilievo Maya che mostrerebbe un astronauta nell'atto di guidare la sua navicella spaziale, con tanto di comandi e motore[2].
Il principale sostenitore della teoria degli antichi astronauti è lo scrittore svizzero Erich von Däniken, autore di decine di libri sull’argomento, vincitore di un Premio Ig Nobel per la letteratura e ideatore perfino di un parco dei divertimenti pseudoscientifico, lo Jungfrau Park di Interlaken (precedentemente noto come Mystery Park), che è stato definito dagli scienziati svizzeri «una Černobyl culturale».
Secondo von Däniken e i suoi colleghi, gli alieni volanti del passato hanno lasciato tracce anche delle loro “piste di atterraggio”. Si tratta delle famose “linee di Nazca”, sulla costa desertica del Perù meridionale: disegni lunghi centinaia di metri, ottenuti scavando la superficie rocciosa più scura e facendo emergere quella più chiara del terreno desertico sottostante. Nel libro Gli extraterrestri torneranno von Däniken suggerisce che i disegni di Nazca «potrebbero anche essere stati costruiti secondo le istruzioni ricevute da un velivolo» e naturalmente la possibilità non ci mette molto a trasformarsi in certezza: «vista dall'alto, l'impressione precisa che mi ha fatto la piana di Nazca, lunga sessanta chilometri, è stata quella di un aeroporto».
Le discussioni sugli antichi astronauti ci servono per aggiungere un nuovo elemento alla nostra affollata cassetta degli attrezzi. Per una volta sarà uno strumento pratico anziché filosofico: lo abbiamo chiamato “contestualizzatore” (ma accettiamo suggerimenti per trovare un nome più orecchiabile).
Per capire come usare il contestualizzatore cominciamo con l'approfondire un po' la storia delle statuette dogū. Sono piccole figure umane e animali in terracotta, che risalgono al periodo Jōmon (10.000 a.C. - 300 a.C.). Ne sono state ritrovate circa 20.000, la maggior parte danneggiate, con gli arti tagliati o rotti; le dimensioni vanno da pochi centimetri a mezzo metro di altezza. Le più antiche sono molto piccole e molto semplici; intorno al 4000 a.C. cominciano ad avere braccia, gambe e teste, e a partire dal 3000 a.C. i volti sono completamente formati. I dogū hanno le forme più svariate: ce ne sono con le corna, con la testa piatta o triangolare, con le gambe arcuate, che indossano corsetti o ginocchiere, che reggono vasi. Tutti i dogū sono stilizzati: non si tratta di rappresentazioni naturalistiche. A che cosa servivano? Il dibattito è ancora aperto. Negli anni Sessanta la teoria più accreditata era quella della “Grande Madre”, una divinità femminile legata alla fertilità. Oggi questa teoria ha perso consensi e alcuni studiosi ipotizzano che i dogū fossero semplici giocattoli. Forse potevano svolgere entrambe le funzioni: quello che è certo è che la teoria “astronautica” non ha alcun seguito presso gli archeologi.
Ora che sappiamo queste cose, possiamo rivedere criticamente la citazione che abbiamo messo all'inizio e riconoscere alcuni comportamenti tipici della fantarcheologia.
Prima di tutto, i fantarcheologi descrivono immagini reali, che però fanno parte di una cultura a loro estranea. Senza conoscere i contesti religiosi, artistici e storici delle immagini nelle culture che le hanno prodotte, non sono in grado di interpretarle correttamente e il modo in cui le descrivono ci dice molto di più su quello che sta nella loro testa piuttosto che in quella degli antichi artisti che le produssero. Come scrive Kenneth L. Feder, queste descrizioni assomigliano molto di più al test di Rorschach che a un'analisi scientifica[3].
Ci viene detto che «uomini del neolitico non avrebbero di certo potuto immaginare e mettere insieme una tale mole di dettagli tecnologici» ma in realtà le statue dogū sono state prodotte per migliaia di anni, cominciando da forme semplici e arrivando poco a poco a raffigurazioni molto più complesse. Se non ci si limita agli esemplari che vengono mostrati di solito, si scopre che le statuette sono molto diverse una dall'altra, che sono volutamente non realistiche e che è semplicemente per caso che alcune di esse possono assomigliare (ai nostri occhi) ad astronauti. Gli archeologi non sono in grado di decifrare il significato di tutti i simboli, ma ci sono delle ipotesi: per esempio, secondo l'archeologo Philippe Dallais, le incisioni sul corpo della statuetta incriminata, che i fantarcheologi interpretano come parti della tuta spaziale, rappresentano dei tatuaggi. La “visiera sagomata” è soggetta a diverse interpretazioni: potrebbe rappresentare gli occhi dei neonati, oppure una maschera usata per ridurre l'esposizione ai raggi solari, come quelle diffuse tra gli Inuit fin dall'antichità (la zona in cui sono stati trovati questi esemplari è soggetta in inverno a pesantissime nevicate). In ogni caso esistono altri artefatti con una simile rappresentazione degli occhi, come la maschera di Agamennone o le statue di argilla di Santarém, in Brasile.
Lo stesso problema di non riconoscere i simboli si presenta con von Däniken, che non conosce il contesto culturale di Palenque e quindi non può sapere che quello che a lui sembra un motore è in realtà il Mostro della Terra e che altri simboli che lui interpreta in modo fantasioso sono molto comuni nell'arte Maya e hanno un significato ben noto agli specialisti.
In secondo luogo, i fantarcheologi mostrano tipicamente un solo esemplare del manufatto misterioso, che sembra spuntare dal nulla e può in effetti apparire difficile da spiegare, preso isolatamente. Non citano invece i molti altri esemplari che aiuterebbero a capire come quell'oggetto si è sviluppato fino ad assumere quel particolare aspetto. Come abbiamo visto prima, le statue dogū sono ventimila e hanno le forme più varie: soltanto alcune statue accuratamente selezionate possono ricordare degli astronauti, le altre no, o perché sono molto semplici (quelle più antiche) o perché, pur essendo complesse, rappresentano figure completamente diverse. Tra l'altro, la tradizione di realizzare figure umanoidi in terracotta è molto comune nel Neolitico: figure analoghe di età analoga e di aspetto molto variabile sono state trovate in tutto il mondo, in luoghi lontani tra loro come Messico, Turchia, Ecuador, Romania ed Egitto. Non si tratta di oggetti senza precedenti, come vengono presentati.
Analogamente, il bassorilievo di Palenque non è affatto l'unico oggetto con quelle caratteristiche, ma si inserisce in un filone artistico: se invece di prendere proprio quello si scelgono altri bassorilievi analoghi, scompaiono le somiglianze (molto vaghe) con un'astronave, ma rimangono gli stessi simboli comuni nella cultura Maya dei quali von Däniken aveva frainteso il senso.
Proprio von Däniken è un maestro nell'arte di decontestualizzare i manufatti archeologici e fa la stessa cosa con le piramidi egizie, che in realtà non comparvero affatto “all'improvviso” come sostiene lui, ma si svilupparono gradualmente nell'arco di migliaia di anni, prima con le mastabe, semplici blocchi squadrati, poi con le piramidi a gradoni e infine con le piramidi a facce lisce. A volte la cattiva abitudine di selezionare gli esemplari favorevoli arriva all'estremo, come nel caso del famoso “jet precolombiano” che in realtà è uno dei pochi oggetti nella ricca collezione del Museo dell'Oro di Bogotá ad assomigliare a un aereo: se si mostra la collezione completa, è facile capire che si tratta di animali variamente stilizzati (insetti, pesci, uccelli, lucertole, pipistrelli, rane e gatti).
Ecco perché di fronte a oggetti apparentemente inspiegabili bisogna usare il “contestualizzatore” per riportarli nel contesto in cui sono stati concepiti: cioè non dobbiamo chiederci che cosa queste raffigurazioni sembrano a noi, che siamo immersi in una determinata cultura, ma che cosa avesse in mente l'autore, che viveva in un contesto storico, artistico e religioso completamente diverso dal nostro. Il problema del contesto si capisce bene nel caso del “jet precolombiano” di Bogotá, che ha cominciato a essere interpretato come un aereo soltanto nel dopoguerra, dopo l'invenzione dei jet: fino a quel momento tutti lo avevano visto come un animale stilizzato e nessuno si era chiesto se potesse significare qualcos'altro, dato che il contesto culturale non era ancora cambiato abbastanza rispetto a quello precolombiano da indurre un'interpretazione diversa.
Ma il contestualizzatore si può anche puntare in una direzione diversa, per ottenere altri risultati interessanti. Per spiegarlo introduciamo un altro elemento fondamentale della fantarcheologia: l'etnocentrismo europeo.
Gli oggetti che secondo i fantarcheologi erano troppo complessi per poter essere opera della civiltà locale si trovano quasi sempre al di fuori dell'Europa: i dogū sono in Asia, i jet precolombiani e le linee di Nazca in Centroamerica, le piramidi e la Sfinge in Africa... L'archeologo Kenneth L. Feder si è divertito a classificare la collocazione geografica degli esempi citati nel libro Gli extraterrestri torneranno (vedere tabella 1): soltanto il 4% degli esempi riguarda l'Europa[4]. I fantarcheologi non si chiedono mai chi aiutò i micenei a costruire il grande tempio di Cnosso, i Greci antichi a costruire il Partenone, o i Romani a costruire il Colosseo, monumenti altrettanto grandiosi di quelli che colpiscono tanto la loro immaginazione. Come mai? È semplice, perché nessuno mette in dubbio che i Greci e i Romani fossero in gamba e sapessero fare queste cose da soli.
Anzi, gli occidentali sono vagamente orgogliosi di queste opere, come a volte capita a noi italiani nei confronti degli antichi Romani: non a caso Mussolini autorizzò gli scavi del Foro di Traiano per celebrare la gloria riscoperta dell'Italia. Invece l'Egitto e il Centroamerica di adesso sono aree povere e instabili. Come potevano gli antenati di questi popoli essere così progrediti da costruire monumenti che richiedevano buone conoscenze matematiche e scientifiche senza alcun aiuto?
In genere l'etnocentrismo dei fantarcheologi non è dichiarato, ma a volte sconfina nel razzismo, più o meno palese: nel libro Impronte degli dei, Graham Hancock sottolinea più volte (con argomenti dubbi) che il dio Inca Wiraqocha doveva essere di aspetto caucasico, con gli occhi azzurri e la pelle chiara, mentre il solito von Däniken arriva a chiedersi, nel libro Signs of the Gods? «Forse la razza nera fu un fallimento e gli extraterrestri ne cambiarono il DNA con l'ingegneria genetica per poi programmare una razza bianca o gialla?»
Siamo abituati a considerare l'etnocentrismo e il razzismo di Hancock e von Däniken come una caratteristica della pseudoscienza, ma in realtà i primi lavori antropologici e etnografici manifestavano gli stessi pregiudizi. Per esempio, per gran parte dell'Ottocento i nativi americani furono considerati troppo “primitivi” per poter essere gli autori degli antichi tumuli e delle impressionanti piramidi di terra presenti nella pianura del Mississippi: il presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln, per esempio, credeva che questi monumenti fossero stati costruiti da un antico popolo di giganti.
Gli scienziati erano così refrattari ad accettare l'idea che i nativi americani avessero costruito i tumuli, che avevano preferito ipotizzare che un popolo europeo più avanzato (la “razza bianca perduta”) avesse scoperto l'America molto tempo prima di Colombo e avesse realizzato queste strutture.
Alla fine dell'Ottocento la comunità scientifica si convinse che i tumuli erano stati costruiti dai nativi americani, ma l'idea che fosse esistito un altro popolo rimase nella cultura popolare e contribuì a generare l'attuale fantarcheologia. Gli antichi alieni di Hancock e von Däniken possono essere visti come la versione moderna della “razza bianca perduta” e, come abbiamo visto, ne mantengono ancora qualche caratteristica.
Tutto questo serve a sottolineare l'importanza che hanno i pregiudizi nell'interpretazione dei dati. Come fece notare Stephen Jay Gould, l'idea della superiorità occidentale e del ruolo centrale del cervello nell'evoluzione umana impedirono per molto tempo di scoprire la frode dell'Uomo di Piltdown[5].
Allo stesso modo, la frode delle Tavole di Davenport fu molto popolare tra chi non accettava l'idea che i tumuli fossero stati costruiti dai nativi americani. In altre parole, sottolinea Amelia Boaks, i bias culturali sono ancora più importanti dell'abilità del falsario nel determinare il successo delle frodi[6], dato che anche gli scienziati sono condizionati dai loro pregiudizi.
Ecco allora che il contestualizzatore non va puntato solo verso gli oggetti antichi ma anche verso gli autori moderni: qual è il loro retroterra culturale? perché sono affezionati a determinate idee? Quali sono, in altre parole, i bias culturali che impediscono loro di accettare le evidenze empiriche?
Non solo la fantarcheologia, ma anche le altre pseudoscienze tendono a portare con sé dei pregiudizi che sono fondamentali per la loro popolarità[7]: portare allo scoperto questi pregiudizi è utile per comprendere la diffusione delle teorie che li trasmettono e per tentare di contrastarle.
Note
1) http://visitatorialieni.blogspot.it/ , consultato il 24/10/2015.
2) E che rappresenta in realtà il re Pakal nell'atto di passare dal regno dei vivi a quello dei morti. Ne abbiamo parlato spesso, ultimamente in un articolo di Giuliana Galati su Query n. 11, autunno 2012.
3) Vedere Kenneth L. Feder, Frodi, miti e misteri. Scienza e pseudoscienza in Archeologia, Avverbi, Roma, 2004, p. 255.
4) Ibidem, pp. 288-289.
5) Un falso fossile di ominide, composto dalla mandibola di un orango e da frammenti di cranio di uomo moderno, ritrovato in Inghilterra nel 1912.
6) Boaks, Amelia. 2008. Why Piltdown and not the Davenport Tablets? PARA Research Paper A-11. http://pseudoarchaeology.org/a11-boaks.html
7) Ne ho parlato in un articolo su Query 19, autunno 2014. Maggiori informazioni si trovano nel libro curato da Massimo Pigliucci e Maarten Boudry Philosophy of Pseudoscience, The University of Chicago Press, Chicago/Londra, 2013, pp. 361-379.