Contro natura
Dario Bressanini, Beatrice Mautino
Rizzoli, 2015, pp. 306, € 17,50
Recensione di Ornella Quivelli
Cosa ci fanno un chimico e una biotecnologa in macchina, con Guccini a tutto volume, in giro fra le sconfinate distese della Pianura padana?
I due compagni di viaggio, rispettivamente Dario Bressanini e Beatrice Mautino, entrambi divulgatori scientifici di talento, hanno girato senza sosta tra campi e aziende agricole raccogliendo interviste, storie, testimonianze, con in testa un unico obiettivo: scoprire cosa finisce ogni giorno nei nostri piatti. Nel loro ultimo saggio “on the road”, Contro natura, i due autori ci accompagnano tra i segreti del cosiddetto “made in Italy” per svelare falsi allarmi e verità nascoste del cibo che portiamo in tavola.
Il menù è bello ricco: primo di fusilli di grano selezionato per mutagenesi, insalatina di carote viola con mais transgenico, bistecca alla fiorentina di manzo alimentato a soia OGM. No, non si tratta della cucina di Frankenstein. Questi sono solo alcuni dei cibi che quotidianamente giungono sulle tavole italiane e che, vinta la reticenza iniziale per i nomi pressoché fantascientifici, possiamo tranquillamente continuare a consumare, rassicurano gli autori, ma in maniera consapevole. Consapevolezza, dunque, in risposta al sempre più crescente allarmismo, spesso immotivato, che dilaga fra i consumatori italiani, complici i mass media e le apposite campagne di disinformazione promosse da associazioni ambientaliste e dalla cattiva politica.
Seduti nella “DeLorean” guidata dai nostri Doc e Marty si farà un viaggio virtuale nel tempo e nello spazio per ripercorrere sin dalle origini le vicende e le storie del “nostro cibo”. E come in ogni avventura che si rispetti non mancheranno i supereroi: colza, soia, girasoli mutanti… Questo percorso sarà tutt’altro che lineare. Bisognerà, infatti, aggirare e superare alcune insidiose “buche” sulla strada: diffidenza, interessi economici, falsi miti e preconcetti. Primo fra tutti, l’idea di una natura immutata, statica, quasi di un ancestrale e idilliaco giardino dell’Eden in cui i frutti perfetti sono a disposizione dell’uomo, da cui il binomio antico = sano.
Si parte proprio da questo giardino, dalla Mezzaluna fertile di 10.000 anni fa, culla dell’agricoltura, per ricostruire, in stile telenovela, le avvincenti origini dei grani. Si scopre, così, che i grani attuali, tra cui il famoso grano duro e quello tenero, sono il risultato di due antichi atti, per così dire, “contro natura”: l’incrocio casuale fra genitori selvatici di generi differenti, e il processo di domesticazione e selezione antropica delle piante, iniziato empiricamente in quei campi 10.000 anni fa, a opera dei primi agricoltori, e portato avanti da agronomi e ricercatori con tecnologie al passo coi tempi.
L’obiettivo, da allora, è rimasto immutato: sfamare la popolazione selezionando le varietà vegetali più appetibili e produttive. Gli strumenti, invece, hanno subito profonde trasformazioni, a seguito dei progressi in ambito biotecnologico e dell’avvento dell’ingegneria genetica. Frutto di queste innovazioni sono alcune nuove varietà agricole, in cui processi naturali di mutazione e selezione vengono affiancati da quelli antropici. Tra queste, per restare in tema grani, spiccano il grano Creso e i frumenti che consumiamo abitualmente ottenuti mediante mutagenesi indotta e incroci mirati. Ecco quindi la prima “buca” nel cammino, con il caso di Striscia la Notizia, trasmissione in cui il grano Creso venne additato, in maniera infondata, come il responsabile della diffusione della celiachia e si iniziò a parlare erroneamente di “grano radioattivo”. Si assiste, in seguito, alla diffusione di mode alimentari, in cui il “laureato alla Google University”, per citare gli stessi autori, si autodiagnostica presunte celiachie e intolleranze alimentari imputandole al glutine e ai grani “moderni”.
Il viaggio prosegue e, fra un risotto e una polenta, si ripercorrono le origini di due cereali che hanno segnato la storia dell’alimentazione dell’umanità. Così si scopre che all’interno di una confezione di Carnaroli nella nostra dispensa potrebbe esserci finito in realtà del Karnak o del Carnise, senza contare che la maggior parte delle varietà di riso che si coltiva nel mondo è ottenuta per mutagenesi diretta o per incroci con varietà mutate. Per rendere più croccanti le nostre fritture usiamo, invece, olio di soia o mais appositamente modificati per tale scopo.
Ogni giorno, dunque, consumiamo OGM? Dipende. Dal punto di vista scientifico non vi sono dubbi su cosa sia o non sia un organismo geneticamente modificato. Non si può dire lo stesso dal punto di vista legislativo, poiché la regolamentazione si basa sulle tecniche per ottenere un prodotto ma non sulle sue caratteristiche, come denunciano più volte gli autori. In questo modo, sebbene molti vegetali che consumiamo abitualmente siano di fatto geneticamente modificati, questi vengono “risparmiati” dal marchio infamante di OGM semplicemente escludendoli sulla base dei processi di produzione. Non mancano, di conseguenza, ricadute economiche e sociali importanti, frutto di questa distinzione del tutto arbitraria. Basti pensare al caso Monsanto, azienda produttrice sia di una varietà di frumento resistente agli erbicidi, ottenuta attraverso l’ingegneria genetica, che è boicottata dagli ambientalisti, sia di una varietà ottenuta mediante reincroci e mutagenesi, che è invece venduta regolarmente. Il tutto senza considerare, segnalano gli autori, i percorsi tortuosi che è costretta a compiere la ricerca per aggirare i “paletti” imposti dalla legislazione e dal mercato.
In un mondo di consumatori sempre più attenti e desiderosi di “bio”, “green”, e “ecofriendly”, appare necessario ricucire quello scollamento fra aspettative e realtà dei fatti. L’immagine un po’ naïf della vita campestre appare invece più simile ad un campo di battaglia: un’eterna competizione fra piante domestiche, infestanti, parassiti e patogeni per la conquista di territori e risorse. I nostri due autori, come nella mitica DeLorean, guardano al futuro. Il vero “biologico” potrebbe essere OGM. Impossibile? No, basta guardare la vicenda della mela tutta italiana studiata per resistere alla temibile ticchiolatura, che consentirebbe di ridurre l’uso di fitofarmaci e il conseguente inquinamento. Le sfide nell’ambito della ricerca e del mercato sono ancora aperte. Comunicazione mirata, etichettatura più veritiera, diminuzione della diffidenza verso il mondo della ricerca sembrano essere le uniche ancore di salvezza per un consumatore sempre più vittima della cattiva informazione.
Il quadro è a dir poco complesso ma per apprezzarne i veri colori, forme e dettagli basta un cambio di prospettiva o, promettono gli autori, di cornice. Solo così si potranno aggirare le bufale e ci si potrà avvicinare ai “supereroi mutanti”, che, a vederli bene, non fanno poi così tanta paura.
Irrazionali e contenti
Silvia Bencivelli, Giordano Zevi
Sironi Editore, 2015, pp. 236, € 18
Recensione di Pasquale Supino
Gli anni Sessanta volgevano ormai al termine quando Daniel Kahneman, psicologo israeliano con dottorato all’Università di Berkeley, ebbe l’intuizione della vita: perché, si disse, non provare a studiare il funzionamento della mente umana basandosi semplicemente su metodi statistici? L’idea si fondava sulla sensazione, all’epoca ancora priva di riscontri concreti, che tutti i nostri comportamenti, compresi quelli più assurdi e privi di ogni logica, potessero essere racchiusi in schemi più o meno delimitati, che permettessero di prevederli o, quantomeno, spiegarli. Kahneman approfondì, in particolare ‒ prima da solo e successivamente con la fondamentale collaborazione dell’economista Amos Tversky ‒, gli studi sulle decisioni prese in condizioni di incertezza, studi che gli valsero, nel 2002, il premio Nobel per l’economia.
Il campo di ricerca in cui si avventurò era, all’epoca, assolutamente sconosciuto ed abbracciava più branche accademiche che, sino ad allora, avevano sempre avuto pochi punti di contatto: neurologia, psicologia, economia, matematica e scienze.
Col passare del tempo si sono moltiplicate le indagini che, prendendo spunto dalle idee di Kahneman, hanno dato vita alla cosiddetta “neuroeconomia”, un settore scientifico multidisciplinare che si pone l’obiettivo di comprendere (e, quando possibile, prevedere) come si comporta la mente umana quando è chiamata a prendere una decisione economicamente valutabile.
È proprio la neuroeconomia a fare da sfondo al libro Irrazionali e contenti, scritto a quattro mani da Silvia Bencivelli e Giordano Zevi, in cui i due autori, unendo competenze molto diverse (sono, rispettivamente, una giornalista scientifica di formazione medica e un economista), si pongono l’obiettivo di chiarire se, e in che percentuale, le nostre scelte economiche siano scevre da ogni condizionamento o se, all’opposto, siano influenzate da fattori esterni.
Il testo si divide in sette capitoli, cui fa da apripista una parte introduttiva. Nel primo, vengono passati in rassegna gli studiosi che, sino a oggi, hanno avuto il merito di capire come la psicologia sia in grado di aiutare l’economia a comprendere determinati comportamenti umani.
Nel secondo, iniziamo a prendere confidenza con la neuroeconomia, per vedere come le ricerche possano permetterci di conoscere i processi cognitivi da cui dipendono i comportamenti di un soggetto intento a investire una somma di denaro, allo scopo di aumentare l’appetibilità delle proposte commerciali, oltre che di appurare se e come la scienza sia in grado di prevedere comportamenti economicamente valutabili dei consumatori.
Per fare un esempio: siete più attratti e ritenete più conveniente l’offerta 3×2 o uno sconto del 33% sul costo totale di tre tubetti di dentifricio? Ma, soprattutto: quei tre tubetti vi occorrono davvero? Nel terzo capitolo, un argomento controverso: donne e uomini presentano caratteristiche diverse quando si tratta di prendere decisioni su acquisti o vendite? Secondo voi, la banca Lehman Brothers sarebbe fallita ugualmente se a guidarla fossero state le Lehman Sisters? Nel quarto, gli autori riportano similitudini e differenze tra il comportamento degli esseri umani e degli altri primati. A proposito, conoscete il problema di Monty Hall? No?
Be’, dovreste: potrebbe farvi vincere un mucchio di soldi! Il quinto capitolo ci permette di comprendere se esistono e come funzionano dipendenze riguardanti la sfera economica, come il gioco d’azzardo e i vizi in generale. Per esempio: le etichette nere – pericolo di morte! ‒ sui pacchetti di sigarette sono un buon deterrente o, paradossalmente, spingono la gente a fumare di più? Il sesto si occupa del perché siamo propensi a enfatizzare e a credere alle esperienze che confermano quello di cui siamo convinti, tendendo a ignorare tutte le evidenze che confermano convinzioni opposte e, più in generale, come mai anche le scelte politiche siano facilmente influenzabili e manipolabili.
Nella settima e ultima parte gli autori provano a trarre le conclusioni di quanto analizzato in precedenza e delle ricadute pratiche che gli studi riportati hanno e potrebbero avere in futuro.
Nel tempo, varie pubblicazioni scientifiche si sono occupate di far conoscere al grande pubblico come le nostre scelte siano, in realtà, tutt’altro che libere: una di queste è rappresentata da Pensieri lenti e veloci, il libro più famoso di Kahneman che, per quanto accuratissimo, richiede una lettura molto impegnativa e attenta, poiché risulta a tratti poco scorrevole. Irrazionali e contenti, invece, ha l’indubbio merito di affiancare alla descrizione e analisi di studi scientifici un linguaggio accessibile anche a chi si accosta per la prima volta ad argomenti sconosciuti, oltre che quello di spiegare, in modo accurato e al tempo stesso comprensibile, come spesso tendiamo a prendere le decisioni che crediamo più ovvie e redditizie, salvo accorgerci, in realtà, che erano soltanto le più insensate.
Giunto alla fine del testo, il lettore, oltre a rendersi conto di come si sia sempre illuso di aver compiuto le proprie scelte in completa autonomia, non potrà non aver apprezzato lo stile e l’onestà degli autori che, ribadendo più volte come quello descritto sia un campo di ricerca in continua evoluzione, stimolano continuamente alla riflessione. In effetti questa rappresenta l’unica forma di difesa in nostro possesso per conoscere e schivare le decisioni irrazionali che, inconsapevolmente, tendiamo a prendere ogni giorno.
La fisica dei sensi
Michele Marenco
Sironi Editore, 2015, pp. 216, € 16
Recensione di Elisa Frei
Si legge molto volentieri questo saggio, sia perché è a carattere scientifico ma con un taglio divulgativo e appassionante, sia perché ognuno degli argomenti di cui tratta merita un approfondimento anche da parte di chi non è uno specialista. Altri aspetti apprezzabili in questo libro sono le molte citazioni, spesso letterarie, che l’autore fa all’inizio di ogni sezione e i molti esempi riportati, che mettono a proprio agio anche il lettore più ignaro della tematica.
L’autore dichiara di aver deciso di studiare i cinque sensi perché essi sono il mezzo attraverso il quale conosciamo il mondo, anche se poi è il nostro cervello a elaborarne una rappresentazione personale. Il primo senso esaminato è il tatto: un esperimento ‒ che ben ci mostra il ruolo della nostra interpretazione di fenomeni prettamente fisici ‒ aveva per oggetto alcuni “sfioramenti” fatti a uomini eterosessuali sempre dalla stessa mano, ma con un video che riprendeva o un uomo o una donna. Quando le “cavie” erano convinte fosse la donna a toccarli riferivano di provare una sensazione piacevole, ma quando pensavano fosse l’uomo dicevano di aver notato che la mano dava loro una sensazione sgradevole.
Si analizzano in questo capitolo anche gli sbalzi termici, i feedback tattili, la pirobazia (ossia l’atto di camminare sulle braci ardenti) e la costruzione di protesi in grado di restituire a chi ha perso un arto anche tutte le sensazioni tattili a esso legate.
La seconda sezione è dedicata all’olfatto, un senso in grado di darci le più svariate emozioni (Proust e le sue madeleine sono la prima cosa che ci viene in mente). Se ne può fare persino una professione: è il caso dei sommelier, dei profumieri, nonché dei cani da tartufo. Il ruolo dell’olfatto non può essere sottovalutato perché è un senso che resta desto 24 ore su 24, anche durante il sonno, quando agisce a livello subliminale.
In questa sezione ci si occupa inoltre del caffè (origine, modalità di preparazione, ruolo sociale) e dei “nasi artificiali”, i cui utilizzi, secondo gli studi in corso, potrebbero essere molteplici (controlli di sicurezza negli aeroporti, rilevamento di malattie quali tumori o infiammazioni tramite... annusata!).
Relativamente al terzo senso preso in considerazione, ormai sappiamo che i quattro gusti fondamentali (dolce/amaro, salato/acido) vanno completati con il cosiddetto umami (un sapore molto simile a quello dell’alga kombu). Un altro mito da sfatare è quello della lingua strutturata a mo’ di “mappa gustativa”: in realtà non c’è una zona più sensibile di altre a un determinato gusto. Interessante è leggere che il gusto servisse ai nostri antenati non certo per apprezzare le pietanze come spesso succede oggi, ma per salvarsi dal mangiare cibi avvelenati (sapore amaro) o avariati/non abbastanza maturi (acido), oppure per avere a disposizione carboidrati di veloce consumo (dolce) o determinati ioni (salato).
La sezione sull’udito sottolinea come la musica possa per noi essere fonte sia di piacere sia di fastidio, e analizza il perché.
Si descrive inoltre l’architettura acustica e l’inquinamento acustico, purtroppo inevitabile al giorno d’oggi (teniamo presente che il cervello elabora suoni senza sosta durante tutto il giorno), e i gravi danni anche fisici che può causare.
L’ultimo senso analizzato è quello generalmente recepito come il più importante, ossia la vista: per capire come funziona, l’autore cita la Monna Lisa e il suo enigmatico sorriso che ci sembra così diverso a seconda della posizione da cui la osserviamo. Altri argomenti trattati in questa sezione sono la prospettiva, il cinema 3D, il suggestivo fenomeno dei miraggi e gli “occhi bionici” che gli scienziati stanno studiando.
L’ultimo capitolo è dedicato agli “altri sensi”, in primo luogo la sinestesia, quell’ “esperienza percettiva in cui stimoli di un certo tipo evocano sensazioni di tipo differente” (p. 196): ciò succede ad alcuni esseri umani (il 4% circa; fra gli artisti la percentuale aumenta fino al 7%) che, al sentire citato un giorno della settimana o una nota musicale, ad esempio, vi associano immediatamente un colore.
Gli animali, infine, continuano a lasciarci sbalorditi per la loro capacità di homing, ossia ritrovare la via di casa anche essendone molto lontani; in particolare gli uccelli migratori pare si basino per orientarsi sulla posizione del sole, delle stelle e anche sul campo magnetico terrestre in caso di condizioni meteorologiche disagevoli.
Gli animali sono noti anche per alcune previsioni che vengono loro attribuite, anche se in questo campo abbondano affermazioni e storie scientificamente infondate.
In conclusione, La fisica dei sensi non sfigurerà tra le letture dei prossimi mesi, perché diverte e insegna al tempo stesso; inoltre la personale sensibilità e la sottile ironia dell’autore pervadono tutto il testo rendendolo ancora più gradevole.
Marmo pregiato e legno scadente
Pietro Greco
Carocci editore, 2015, 152 pp., € 15
Recensione di Anna Rita Longo
DI CHE COSA SI PARLA:
Nel 1915 Einstein presentava la sua teoria della relatività generale.
Nel centenario di questa fondamentale tappa per la comprensione dell’universo, Pietro Greco ripercorre l’origine della scoperta, illustrando al lettore le cause della frustrazione che il grande scienziato provava nei riguardi della propria teoria, che considerava solo in parte soddisfacente.
L’equazione che la illustrava gli appariva, infatti, come un misto di “marmo pregiato” (la parte in cui il campo gravitazionale è descritto come curvatura dello spaziotempo) e “legno scadente” (il secondo membro, relativo alle proprietà della materia, che gli appariva come rozzo e approssimativo).
PERCHÉ LEGGERLO:
Per ripercorrere la straordinaria vicenda di una teoria destinata a cambiare profondamente la nostra visione del mondo, guardandola in prospettiva storica.
Nessuna grande scoperta è, infatti, frutto di un isolato colpo di genio: come sottolinea Pietro Greco, anche le grandi menti come Einstein sono solo parte di un percorso, iniziato prima di loro e potenzialmente infinito.
Quello che alle mamme non dicono
Chiara Palmerini
Codice, 2015, pp. 194, € 13
Recensione e intervista di Anna Rita Longo
Le prescrizioni che accompagnano la gravidanza e il puerperio sono davvero tante, come ben sa chi ha già avuto figli o desidera averne. Si tratta di indicazioni sull’alimentazione, sul movimento, sullo stress, sulla gestione dell’allattamento e su molti altri ambiti che vanno a incidere su alcuni aspetti della vita della donna, che non di rado si sente giudicata e colpevolizzata nelle proprie scelte. Raramente, però, avviene che tali prescrizioni siano accompagnate da una spiegazione chiara delle ragioni scientifiche sulle quali si fondano, per consentire alle madri, o future tali, di compiere scelte consapevoli per sé e per il proprio bambino, chiaramente nel pieno rispetto delle indicazioni del medico, che restano imprescindibili. Il saggio di Chiara Palmerini prende le mosse dalla constatazione di questo gap comunicativo e procede – con l’aiuto di esperti e sulla base della letteratura scientifica – a colmarlo, mettendo in luce punti di forza e limiti di quelle che spesso si ritengono verità conclamate. Accompagnano il discorso interessanti note storiche, utili a inquadrare fenomeni e pratiche in una prospettiva socio-antropologica.
Approfondiamo, ora, alcune questioni rivolgendo a Chiara Palmerini qualche domanda.
INTERVISTA A CHIARA PALMERINI
Il tuo libro mostra il grande spazio che, nell’era della scienza e della tecnologia, hanno la disinformazione e la pseudoscienza anche in tema di gravidanza e di accudimento dei neonati e delle neonate. Quali possono essere le cause?
Non sono neppure sicura che per molte delle informazioni che circolano sulla gravidanza si possa parlare di pseudoscienza, perlomeno nel senso peggiore del termine. Direi che c’è un grande rumore di fondo in cui tende a perdersi la “gradazione” tra ciò che è più consolidato e accettato da un punto di vista scientifico, ciò che lo è assai meno e ciò che non lo è per niente. E – altro aspetto – anche ciò che è consolidato in generale da un punto di vista scientifico non è detto abbia poi rilevanza da un punto di vista pratico, per la vita della donna e per le sue scelte.
Nel tuo libro evidenzi la rilevante presenza, a livello mediatico, del tema della gravidanza. Un essere venuto da un altro pianeta ‒ dici ‒ potrebbe pensare che non parliamo d’altro. Quali sono, a tuo avviso, le cause e le conseguenze (positive e negative) di questa attenzione?
Sulle cause non saprei addentrarmi in un’analisi puntuale. Probabilmente influiscono tantissimi fattori sociali, uno su tutti il fatto che ormai la gravidanza sia un’esperienza spesso unica per una donna, su cui per forza di cose si concentrano tantissime attenzioni. Poi sicuramente ci sono le pressioni del “marketing della salute” e le notevoli spinte commerciali su questo periodo della vita di una donna, che è diventato oggetto di un’offerta di prodotti e servizi formidabile.
L’effetto positivo è forse che le donne hanno accesso a tanti possibili canali di informazione. Forse la conseguenza più negativa è proprio che la sovrabbondanza di informazione è solo apparente. E c’è il rischio di esserne semplicemente sommersi, oppure di arrivare alla saturazione.
Il libro affronta la tematica della gravidanza anche in prospettiva storica. Come è cambiato, nel tempo, il modo di vivere questo stato e, più in generale, il concetto di maternità?
Diciamo che ogni epoca, e più di recente quasi ogni generazione, ha avuto le sue idee sulle pratiche adatte e il modo migliore di vivere la gravidanza, il parto e anche la maternità. Il fenomeno fisiologico è lo stesso dalla notte dei tempi, ma quello che rappresenta nella società è davvero peculiare di ogni momento storico. Mi sono immersa da semplice appassionata in questo aspetto – ovviamente solo con alcune incursioni, e guidata più dalla curiosità che da un approccio sistematico perché l’argomento è sconfinato – e quello che mi ha colpito di più è stato scoprire quanto in fondo siano sempre state simili le paure, i desideri, le aspettative delle donne in attesa.
La differenza sicuramente più scioccante che caratterizza la nostra epoca (e purtroppo solo noi fortunate che viviamo nei paesi sviluppati) da quelle passate è il rischio concreto di morte che la gravidanza e il parto rappresentavano per una donna. La storia dell’evoluzione degli strumenti ostetrici, tipo il forcipe, o quella del taglio cesareo, sono altri passaggi della storia della medicina che ci fanno sentire oggi davvero privilegiate rispetto alle generazioni che ci hanno precedute.
Ancora più interessante è stato osservare come il contesto storico e sociale influisca su quello che sia considerato desiderabile o no. Certe “innovazioni” che oggi guardiamo con orrore, per esempio il parto sotto sedazione farmacologica, il cosiddetto twilight sleep, agli inizi del novecento era in realtà stato visto e voluto come una conquista dalle femministe americane: una sorta di rivolta contro il dettame biblico “donna, partorirai nel dolore”. Oggi, al contrario, lo spirito dei tempi è caratterizzato da un forte richiamo alla “naturalità”.
Quali potrebbero essere i rischi correlati con questa richiesta di ritorno alla naturalità?
C’è da dire che quello di naturalità è un concetto a maglie larghissime. Da una parte oggi è sentita fortemente l’esigenza di evitare una medicalizzazione eccessiva della gravidanza e del parto, e di tornare a una loro gestione “più umana”, dato che non sono malattie ma eventi fisiologici. Mi pare di poter affermare che non è solo una richiesta delle donne: molti medici e molte ostetriche sono d’accordo. E c’è anche da ricordare che, dopo anni in cui l’ostetricia aveva il poco invidiabile primato di “meno scientifica” tra le specialità mediche, alcune pratiche di routine in ospedale considerate inutilmente invasive sono state progressivamente abbandonate, dopo che gli studi ne hanno dimostrato l’inutilità. La richiesta di “naturalità” va però oggi oltre: si torna, per esempio, a parlare di parto in casa. Guardando agli studi condotti finora, specialmente i più recenti, non sono stati osservati particolari rischi aggiuntivi del partorire in casa rispetto all’ospedale, se – premessa importante ‒ si parla di donne con una gravidanza a bassissimo rischio. Ma c’è anche da sottolineare che i dati disponibili riguardano in genere paesi con una lunga tradizione di parto casalingo, spesso dotati di una classe di ostetriche preparate specificatamente ad affrontarli, con un sistema di trasporti e di procedure codificato per gestire eventuali emergenze, e quindi non immediatamente applicabili a realtà come la nostra. [N.d.R.: un approfondimento sul parto in casa e i relativi rischi si può leggere nel blog di Salvo Di Grazia per Le Scienze, al link: http://digrazia-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/02/06/il-parto-miglior... ].
E sempre per una richiesta di “naturalità” si arriva alla proposta (o alla richiesta da parte delle donne) di pratiche ben più bizzarre e insolite e non basate su alcuna evidenza scientifica, come la cosiddetta Lotus Birth, che consiste nel tenere alla nascita il bambino attaccato alla placenta fino a che non si stacca da sola. Alcuni studi cominciano a evidenziare che ritardare, anche di poche decine di secondi, non certo di giorni o settimane, il taglio del cordone ombelicale può aiutare a prevenire l’anemia nel neonato o nel bambino. Ma per la Lotus Birth in quanto tale non c’è invece alcuna prova che possa fornire dei benefici, mentre potrebbe forse comportare qualche rischio in termini di infezioni. Ho trovato poi ancora più preoccupante che in alcuni ambienti – una minoranza ‒ l’idea della naturalità a tutti i costi si accompagni a consigli certamente sconsiderati, per esempio quello di evitare le vaccinazioni infantili.
Quale si è rivelata la più grande difficoltà e l’aspetto più interessante del lavoro di preparazione e di stesura del testo?
La maggiore difficoltà è stata forse quella di riuscire a comunicare in un modo corretto, non superficiale ma anche “concreto”, alcuni argomenti. Uno dei più complessi è sicuramente il tema della ricerca sullo “sviluppo fetale delle malattie”. È un campo di ricerca emergente e molto affascinante in cui si indaga quanto le influenze durante il periodo della gravidanza contino per la salute futura dell’individuo. Si parla di influenze ambientali di ogni genere (dall’alimentazione della madre all’aria che respira, alle infezioni che eventualmente contrae) che a loro volta, tramite effetti epigenetici e non solo, possono influire sulla traiettoria di sviluppo del feto. Se è innegabile che queste influenze ci siano, come ormai una mole considerevole di ricerche dimostra, allo stesso tempo non è facile far capire quanto possano davvero contare nella vita pratica, e se e quanto abbia senso modificare un comportamento (mangiare più pesce, per fare un esempio, o andare a vivere in una zona con meno inquinamento da traffico) per ottenere un effetto (magari, figlio più “intelligente”). Il rischio connesso alla divulgazione sui media di queste ricerche, poi, come ha sottolineato di recente un articolo su Nature è che si finisca per incolpare, anche se non intenzionalmente, le madri, per qualsiasi effetto sulla salute o lo sviluppo dei figli.
Per molte delle domande che la ricerca scientifica e gli studi epidemiologici si fanno non ci sono ancora delle risposte, e ancora meno ci sono risposte da tradurre in indicazioni concrete. Quello che ho trovato più interessante è stato cercare di contestualizzare questo genere di studi, o di raccontare la storia della nascita di ricerche in altri ambiti legati alla gravidanza, per esempio quelle sulla cognizione del feto. La descrizione di come sono state condotte, con quali mezzi e con quali finalità a mio parere aiuta a capire, e anche a valutare, quali sono da tenere più in considerazione e quali no.
Quale messaggio di fondo ti auguri che il lettore porti a casa? Quale scopo ti eri prefissata scrivendo questo libro?
Mi piacerebbe che passasse un messaggio di consapevolezza che su questo argomento, come su molti altri riguardanti la salute, la realtà è spesso più complessa di quello che tendiamo a credere, e che è cruciale cercare buone informazioni. Oggi la gravidanza, in Italia e nei paesi occidentali, è sicura: è quasi sempre seguita e monitorata attentamente da un punto di vista sanitario. E questo è certamente un bene. Il rischio, che vedo io, è che talvolta una donna si trovi incamminata su un binario che segue senza sapere e a volte senza neppure chiedersi il perché: ci si sottopone a certi esami perché è quello che tutte le altre fanno; si seguono, a volte con discreta fatica, certe regole di comportamento perché l’ha consigliato il medico ma non si capisce il perché; si chiede di partorire in un modo o in un altro perché così ha fatto un’attrice o una cantante...
Andare alla fonte, sapere su quali dati sono basate le raccomandazioni, magari anche accorgersi dei fattori sociali e culturali che influiscono sul fatto che oggi si propenda per alcune o per altre pratiche, secondo me aiuta a scegliere e a decidere più consapevolmente. Magari anche ad adattare i consigli (medici e non solo) alla propria situazione personale o alle proprie idee.