Le riviste scientifiche open access tra opportunità e truffe

Nello scorso numero, cogliendo l’occasione di un articolo molto critico dell’Economist, abbiamo visto come il sistema della letteratura scientifica, una delle basi del lavoro degli scienziati, sia per certi versi in crisi. Proseguiamo in questo e nei prossimi numeri con qualche dettaglio in più sui vari aspetti del problema.

Abbiamo già descritto in questa rubrica il meccanismo della peer review, attraverso la quale i risultati della ricerca, sotto forma di articolo, sono vagliati in vista della pubblicazione su una rivista scientifica. Abbiamo anche visto come, almeno in linea di principio, il passo successivo sia lo sforzo di controllare i risultati pubblicati tentando di ripetere gli esperimenti descritti (questa naturalmente è una semplificazione eccessiva, ma i dettagli non ci interessano in questo momento).

Tra la pubblicazione del paper e la (anche solo ipotetica) replicazione dell’esperimento manca però un passaggio solo in apparenza semplice: la rivista che ospita gli articoli deve essere in qualche modo distribuita alla comunità scientifica e raggiungere i lettori potenzialmente interessati. Come funziona questo processo e, soprattutto, chi paga?

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Palazzo che ospita l’American Association for the Advancement of Science
Alcune riviste scientifiche sono pubblicate da enti no-profit come l’American Association for the Advancement of Science che pubblica Science, ma la maggior parte è prodotta da case editrici commerciali, generalmente specializzate in questo tipo di editoria. Come osservavamo nello scorso numero, il mercato delle riviste è esploso; i servizi che gestiscono i database ne censiscono oggi circa 25000, il 40% delle quali è pubblicato dai tre giganti del settore: l’americana Wiley, l’olandese Elsevier e la tedesca Springer. I costi di produzione sono di solito coperti dagli abbonamenti sottoscritti dalle biblioteche accademiche, i quali generalmente comprendono sia una copia cartacea (anche se molte riviste sono ormai solo online) che l’accesso agli archivi digitali e alle edizioni online.

Insieme al proliferare delle riviste, però, anche i prezzi degli abbonamenti hanno continuato a crescere almeno negli ultimi trent’anni, e il risultato netto è che la spesa sostenuta dalle biblioteche per mantenere un ragionevole corredo di letteratura scientifica è cresciuta enormemente. Secondo uno studio della Association of Research Libraries di Washington[1], per esempio, la spesa media per le riviste è aumentata del 340% tra il 1986 e il 2007, mentre la spesa per le monografie (ossia i libri scientifici) è cresciuta solo dell’87%: in confronto, l’indice (americano) dei prezzi al consumo, per lo stesso periodo di riferimento, è cresciuto dell’89%. A parità di potere d’acquisto, quindi, la spesa per i libri è rimasta circa costante, mentre quella per le riviste è più che raddoppiata. Questo fenomeno, che sta mettendo in crisi anche le istituzioni più facoltose, crea una disparità eccessiva nell’accesso all’informazione scientifica di base tra università ricche e università povere, tra paesi più ricchi e paesi più poveri.

Da più parti ci si chiede se non si possa trovare un modo per permettere a tutti l’accesso gratuito alla conoscenza scientifica. Una possibilità è cambiare il modello di finanziamento e far pagare i costi ai ricercatori che chiedono di pubblicare un lavoro. Non di tasca loro, naturalmente: sarebbero sempre le università o le istituzioni di ricerca a finanziare le riviste, ma pagando per la pubblicazione degli articoli invece che per gli abbonamenti.

Questo sistema si chiama Open Access; esistono già numerose riviste, anche importanti, che si finanziano in questo modo, e molte istituzioni richiedono che almeno una parte dei risultati delle ricerche da loro finanziate sia pubblicata su riviste Open Access. Non entreremo qui nel dibattito se questo modello sia economicamente sostenibile, ma è evidente come favorisca un accesso molto più democratico alla letteratura scientifica.

C’è però un inghippo. Una rivista Open Access non guadagna in base al numero di abbonamenti, che si può immaginare in qualche modo legato alla qualità, o per lo meno al prestigio, della rivista: molto più banalmente, più articoli pubblica più guadagna. Come si fa a essere certi che gli editori Open Access resistano alla tentazione di tirar su un po’ di soldi facili, pubblicando articoli di dubbia qualità scientifica? Certo, sono riviste scientifiche e quindi, per definizione, il meccanismo della peer review dovrebbe garantire un minimo di controllo, ma siamo sicuri che le decine di case editrici Open Access spuntate come funghi negli ultimi quindici anni non prendano qualche scorciatoia? L’unico modo per scoprirlo è fare un esperimento come quello fatto da John Bohannon e riportato su un numero speciale di Science dedicato alla comunicazione nel mondo della scienza, uscito nell’ottobre del 2013[2].

Bohannon (biologo di formazione) ha confezionato un articolo-esca zeppo di errori evidenti anche a una lettura superficiale. L’articolo descriveva come una molecola X, derivata dal lichene Y, inibisse la crescita delle cellule cancerose di tipo Z. Un soft- ware provvedeva poi a sostituire X, Y e Z con termini realistici, producendo centinaia di articoli diversi. Gli autori erano generati in modo analogo, permutando casualmente nomi e cognomi africani, e le affiliazioni accademiche ottenute mescolando parole swahili a caso, nomi africani e termini appropriati, generando risultati come “Ocorrafoo M. L. Cobange, Wassee Institute of Medicine, Asmara” (la scelta di inventare ricercatori provenienti da paesi africani in via di sviluppo serviva a far sì che un reviewer curioso non si insospettisse troppo nel non trovare tracce dell’autore su Internet). Tocco finale, per simulare la padronanza imperfetta dell’inglese che ci si potrebbe aspettare da un non-madrelingua, il testo dell’articolo è stato tradotto con Google Translator dall’inglese al francese, e poi indietro all’inglese, correggendo infine a mano le stranezze eccessive.

Sono stati generati in questo modo 304 articoli, poi sottoposti ad altrettante riviste. 29 di queste non hanno mai risposto e altre 20 non hanno terminato il processo di review in tempo utile per l’inclusione nello studio; ma dei rimanenti solo 98 sono stati rifiutati! Ben 157 riviste hanno accettato il paper, più di metà delle quali apparentemente senza che il lavoro fosse neanche sottoposto ad alcun tipo di review. Naturalmente, una volta ricevuta la lettera di accettazione e la richiesta di pagamento per la pubblicazione, Bohannon rispondeva con un messaggio in cui dichiarava di aver trovato un errore nell’articolo e di volerlo ritirare.

Bohannon e molti commentatori ci tengono a sottolineare come i problemi evidenziati dall’esperimento non derivino direttamente dal modello Open Access, e forse se l’esperimento avesse coinvolto anche riviste tradizionali il risultato non sarebbe stato molto diverso. Il modello Open Access, parallelamente agli indubbi vantaggi, può però amplificare questi problemi.

È chiaro che simili riviste, oltre a configurarsi a volte come una pura e semplice truffa, inquinano la letteratura scientifica. Come fare a fidarsi dei risultati di uno studio pubblicato su una rivista apparentemente senza che nessuno l’abbia neanche letto?

Una risposta che si sente spesso dare è che chi è del mestiere sa benissimo distinguere tra questo genere di riviste e la letteratura seria, e magari è pure vero. Questa però non è una buona ragione per tollerare il rischio di articoli-spazzatura, ed è sempre più vero che gli articoli scientifici, anche grazie al movimento Open Access, sono letti anche da chi non è propriamente del mestiere: i giornalisti non specializzati in scienza, per esempio (e sono la stragrande maggioranza).

Un primo approccio, seppure un po’ rudimentale, è quello di mantenere un elenco delle riviste e delle case editrici troppo disinvolte, che i ricercatori possano consultare per decidere quanto fidarsi dei risultati che trovano su una certa rivista (e magari evitare di sottoporle i loro articoli). Uno molto famoso è quello gestito da Jeffrey Beall, bibliotecario e professore associato all’University of Colorado Denver[3]. Il sistema però ha dei limiti evidenti: i criteri di inclusione nella lista sono necessariamente arbitrari, e le scelte di Beall generano invariabilmente discussioni e polemiche.

La comunità della Fisica delle Particelle sta sperimentando una possibile alternativa: le agenzie coinvolte (in Italia l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) hanno formato un consorzio mondiale che ha sede al CERN e che finanzierà le pubblicazioni, selezionando in anticipo le riviste anche attraverso criteri di qualità. L’idea è che l’esplosione dei costi sia dovuta a una mancanza di competizione commerciale tra gli editori; per reintrodurre un regime di concorrenza, è stato costituito il consorzio SCOAP3 (Sponsoring Consortium for Open Access in Particle Physics Publishing[4]). Periodicamente il consorzio emette un bando di gara per selezionare le riviste che, per un triennio, si impegneranno a pubblicare gli articoli a una tariffa fissa, mettendoli a disposizione del pubblico perpetuamente sotto una poco restrittiva licenza Creative Commons. Per dare un’idea delle cifre in gioco, la spesa totale per la pubblicazione degli articoli (che, almeno per ora, riguardano solo la Fisica delle Particelle) è di 5 milioni di dollari l’anno, con il 6.9% in quota all’Italia.

La prima gara si è conclusa nel 2012, spuntando un prezzo per articolo sensibilmente inferiore a quello medio del mercato, e la pubblicazione degli articoli è iniziata il primo gennaio 2014. Se funzionerà, potrebbe essere un modello da esportare anche per altre discipline.

Note

2) J. Bohannon, “Who's Afraid of Peer Review?” Science 342:60-65 (2013)http://tinyurl.com/nfglz8j
accessToken: '2206040148.1677ed0.0fda6df7e8ad4d22abe321c59edeb25f',