Nelle pagine di questa rubrica abbiamo più volte denunciato la scarsa considerazione sociale e istituzionale che nel nostro paese hanno la scienza, la ricerca, l’istruzione e, in generale, la cultura. Allarmi analoghi sono stati più volte sollevati anche da persone ben più autorevoli di noi e che abbiamo spesso citato. Recentemente un’originale, intelligente, divertente e, speriamo, efficace denuncia è stata lanciata tramite un film, solo apparentemente comico. Si tratta di Smetto quando voglio, del giovane regista salernitano Sydney Sibilia, uscito nelle sale italiane il 6 febbraio 2014.
Il film narra la strana storia di sette giovani amici che hanno raggiunto elevatissimi livelli di formazione e che, proprio a causa di questo, hanno grossissimi problemi occupazionali. C’è Pietro, principale protagonista, che è un brillante neurobiologo trentasettenne, ricercatore precario che si ritrova senza lavoro a causa dei feroci e continui tagli inflitti all’università e all’inevitabile malcostume, in essa dilagante, che favorisce i soliti raccomandati a danno di chi possiede meriti. Ci sono Mattia e Giorgio, due bravi latinisti costretti a lavorare di notte presso una pompa di benzina, con un compenso irrisorio versato in nero da un cingalese. C’è Alberto, geniale chimico, che per sopravvivere fa il lavapiatti in un ristorante cinese ed è felice quando gli viene prospettata la possibilità di essere promosso a cameriere con un salario di 700 euro al mese. C’è poi Andrea, antropologo che cerca occupazione come meccanico, tentando di nascondere la sua laurea, ma che viene tradito dal suo eloquio colto, durante un colloquio di lavoro. C’è Arturo, esperto archeologo, da anni precario. E infine Bartolomeo, laureato in economia che si ritrova a barare a poker per cercare di racimolare qualche quattrino.
Frustrati dalle condizioni in cui sono costretti a vivere, i sette giovani decidono di cambiare vita diventando criminali. Pietro ha l’idea di unire le sette brillanti menti, con la loro solida preparazione, per sintetizzare e spacciare una nuova sostanza stupefacente, ancora non catalogata come tale dal Ministero della Salute e quindi al limite della legalità. Per attuare il loro piano, programmano meticolosamente le varie fasi da percorrere. La fase uno prevede naturalmente la stretta collaborazione delle sette menti altamente scolarizzate. Nella seconda fase si deve procedere alla produzione della droga. Nella terza fase i sette intellettuali devono attuare una sorta di trasformazione antropologica per riuscire a introdursi nei locali notturni dove effettuare lo spaccio. Nell’ultima fase, infine, per non destare sospetti, sono obbligati a mantenere rigorosamente il loro basso tenore di vita, anche se resistere alle tentazioni è tutt’altro che facile e i guai sono inevitabili.
Il film si sviluppa in maniera agile e divertente, a tratti davvero esilarante, con molti spunti che attingono alla tradizione della commedia all’italiana, ma anche a quella del cinema americano, fino a evidenti riferimenti alle serie televisive come Breaking Bad (che racconta le vicende di uno sfortunato professore di chimica divenuto produttore e spacciatore di metanfetamina) e The Big Bang Theory (che narra le vicende di quattro giovani scienziati, un po’ nerd, che lavorano insieme al California Institute of Technology.
Al di là del suo indubbio valore artistico e alla sua irresistibile comicità, il film lancia un profondo e serissimo messaggio. Nella migliore tradizione del castigat ridendo mores, Smetto quando voglio rappresenta infatti un’amara denuncia delle difficoltà che nel nostro paese incontra chiunque voglia dedicarsi a professioni culturali. Al di là della finzione cinematografica, infatti, la realtà rappresentata nel film è drammaticamente autentica. Come ha dichiarato lo stesso regista[1]: «Ci ho messo tutto quello che mi piace al cinema e in tv, ma lo spunto iniziale è arrivato dalla cronaca. Un articolo su la Repubblica che raccontava di due netturbini laureati in filosofia che nell’alba romana dissertavano sulla Critica della ragion pura”. E anche le figure dei singoli personaggi sono tratti da casi reali, come Sibilia ha confessato: “Tutte le storie di partenza sono vere. Il personaggio dell’antropologo che vuole fare lo sfasciacarrozze in realtà era un ragazzo della Sapienza che cercava d’essere assunto da un fruttivendolo marocchino di San Lorenzo. I veri netturbini filosofi sono diventati i benzinai latinisti, sono veri il biologo cameriere e l’archeologo ultraprecario. Nella realtà ne ho scoperte altre talmente surreali che non ho potuto inserirle nel film, non ci avrebbe creduto nessuno».
Se questi sono casi indubbiamente reali, è però anche vero che esistono dati statistici che, per fortuna, mostrano comunque come un elevato livello di istruzione faciliti l’occupazione. Ad esempio, come ha dichiarato Andrea Cammelli, docente di statistica e direttore del consorzio Alma Laurea: «L’ISTAT rileva che, fino ad oggi, nell’intero arco della vita lavorativa, i laureati hanno presentato un tasso di occupazione di oltre 12 punti percentuali maggiore rispetto ai diplomati (76,6 contro 64,2%) [ultimo dato disponibile relativo al 2012]»[2].
Come insegnante a me capita molto spesso di dover rispondere alle domande di ragazzi che, avendo poca voglia di studiare, chiedono a cosa serva lo studio, se poi fior di laureati si ritrovano disoccupati o costretti a svolgere umili mansioni che nulla hanno a che fare con ciò in cui si sono specializzati. La questione non è per nulla semplice e spesso si prova non poco imbarazzo di fronte a simili domande. L’imbarazzo è ulteriormente amplificato dall’esistenza dei non pochi bellimbusti rozzi e semianalfabeti che, nella nostra disgraziata società, hanno raggiunto posizioni sociali che implicano prestigio, ricchezza e ammirazione.
Cosa si può rispondere a domande di questo tipo? Anche se è tutt’altro che facile, credo che si debba cercare di far comprendere ai ragazzi il valore della cultura in sé, indipendentemente dalle opportunità di ascesa sociale che essa può o no implicare. Il sapere è un bene in sé e una volta acquisito nessuno lo può più togliere: questo indipendentemente dal mestiere che ci si troverà a dover accettare per sbarcare il lunario.
Nell’ambito del Piano Nazionale Lauree Scientifiche[3], cui il mio istituto aderisce per il corso di laurea in scienza dei materiali, ho spesso rapporti con un giovane ricercatore universitario precario. Una volta mi ha fatto sorridere perché, rivolgendosi ai miei studenti, ha detto: «Magari un giorno, a causa della crisi economica dilagante, ci ritroveremo tutti quanti ad accattonare sotto un ponte. Tuttavia, chi ha studiato scienza dei materiali qualche vantaggio potrà averlo lo stesso. Ad esempio, potrà stimare meglio le proprietà isolanti di un cartone con il quale coprirsi durante la notte, o valutare su quale superficie coricarsi per raffreddarsi meno». Forse, se riuscissimo a far comprendere questo ai giovani, potremmo convincerli a studiare. Nonostante tutto!
Il film narra la strana storia di sette giovani amici che hanno raggiunto elevatissimi livelli di formazione e che, proprio a causa di questo, hanno grossissimi problemi occupazionali. C’è Pietro, principale protagonista, che è un brillante neurobiologo trentasettenne, ricercatore precario che si ritrova senza lavoro a causa dei feroci e continui tagli inflitti all’università e all’inevitabile malcostume, in essa dilagante, che favorisce i soliti raccomandati a danno di chi possiede meriti. Ci sono Mattia e Giorgio, due bravi latinisti costretti a lavorare di notte presso una pompa di benzina, con un compenso irrisorio versato in nero da un cingalese. C’è Alberto, geniale chimico, che per sopravvivere fa il lavapiatti in un ristorante cinese ed è felice quando gli viene prospettata la possibilità di essere promosso a cameriere con un salario di 700 euro al mese. C’è poi Andrea, antropologo che cerca occupazione come meccanico, tentando di nascondere la sua laurea, ma che viene tradito dal suo eloquio colto, durante un colloquio di lavoro. C’è Arturo, esperto archeologo, da anni precario. E infine Bartolomeo, laureato in economia che si ritrova a barare a poker per cercare di racimolare qualche quattrino.
Frustrati dalle condizioni in cui sono costretti a vivere, i sette giovani decidono di cambiare vita diventando criminali. Pietro ha l’idea di unire le sette brillanti menti, con la loro solida preparazione, per sintetizzare e spacciare una nuova sostanza stupefacente, ancora non catalogata come tale dal Ministero della Salute e quindi al limite della legalità. Per attuare il loro piano, programmano meticolosamente le varie fasi da percorrere. La fase uno prevede naturalmente la stretta collaborazione delle sette menti altamente scolarizzate. Nella seconda fase si deve procedere alla produzione della droga. Nella terza fase i sette intellettuali devono attuare una sorta di trasformazione antropologica per riuscire a introdursi nei locali notturni dove effettuare lo spaccio. Nell’ultima fase, infine, per non destare sospetti, sono obbligati a mantenere rigorosamente il loro basso tenore di vita, anche se resistere alle tentazioni è tutt’altro che facile e i guai sono inevitabili.
Il film si sviluppa in maniera agile e divertente, a tratti davvero esilarante, con molti spunti che attingono alla tradizione della commedia all’italiana, ma anche a quella del cinema americano, fino a evidenti riferimenti alle serie televisive come Breaking Bad (che racconta le vicende di uno sfortunato professore di chimica divenuto produttore e spacciatore di metanfetamina) e The Big Bang Theory (che narra le vicende di quattro giovani scienziati, un po’ nerd, che lavorano insieme al California Institute of Technology.
Al di là del suo indubbio valore artistico e alla sua irresistibile comicità, il film lancia un profondo e serissimo messaggio. Nella migliore tradizione del castigat ridendo mores, Smetto quando voglio rappresenta infatti un’amara denuncia delle difficoltà che nel nostro paese incontra chiunque voglia dedicarsi a professioni culturali. Al di là della finzione cinematografica, infatti, la realtà rappresentata nel film è drammaticamente autentica. Come ha dichiarato lo stesso regista[1]: «Ci ho messo tutto quello che mi piace al cinema e in tv, ma lo spunto iniziale è arrivato dalla cronaca. Un articolo su la Repubblica che raccontava di due netturbini laureati in filosofia che nell’alba romana dissertavano sulla Critica della ragion pura”. E anche le figure dei singoli personaggi sono tratti da casi reali, come Sibilia ha confessato: “Tutte le storie di partenza sono vere. Il personaggio dell’antropologo che vuole fare lo sfasciacarrozze in realtà era un ragazzo della Sapienza che cercava d’essere assunto da un fruttivendolo marocchino di San Lorenzo. I veri netturbini filosofi sono diventati i benzinai latinisti, sono veri il biologo cameriere e l’archeologo ultraprecario. Nella realtà ne ho scoperte altre talmente surreali che non ho potuto inserirle nel film, non ci avrebbe creduto nessuno».
Se questi sono casi indubbiamente reali, è però anche vero che esistono dati statistici che, per fortuna, mostrano comunque come un elevato livello di istruzione faciliti l’occupazione. Ad esempio, come ha dichiarato Andrea Cammelli, docente di statistica e direttore del consorzio Alma Laurea: «L’ISTAT rileva che, fino ad oggi, nell’intero arco della vita lavorativa, i laureati hanno presentato un tasso di occupazione di oltre 12 punti percentuali maggiore rispetto ai diplomati (76,6 contro 64,2%) [ultimo dato disponibile relativo al 2012]»[2].
Come insegnante a me capita molto spesso di dover rispondere alle domande di ragazzi che, avendo poca voglia di studiare, chiedono a cosa serva lo studio, se poi fior di laureati si ritrovano disoccupati o costretti a svolgere umili mansioni che nulla hanno a che fare con ciò in cui si sono specializzati. La questione non è per nulla semplice e spesso si prova non poco imbarazzo di fronte a simili domande. L’imbarazzo è ulteriormente amplificato dall’esistenza dei non pochi bellimbusti rozzi e semianalfabeti che, nella nostra disgraziata società, hanno raggiunto posizioni sociali che implicano prestigio, ricchezza e ammirazione.
Cosa si può rispondere a domande di questo tipo? Anche se è tutt’altro che facile, credo che si debba cercare di far comprendere ai ragazzi il valore della cultura in sé, indipendentemente dalle opportunità di ascesa sociale che essa può o no implicare. Il sapere è un bene in sé e una volta acquisito nessuno lo può più togliere: questo indipendentemente dal mestiere che ci si troverà a dover accettare per sbarcare il lunario.
Nell’ambito del Piano Nazionale Lauree Scientifiche[3], cui il mio istituto aderisce per il corso di laurea in scienza dei materiali, ho spesso rapporti con un giovane ricercatore universitario precario. Una volta mi ha fatto sorridere perché, rivolgendosi ai miei studenti, ha detto: «Magari un giorno, a causa della crisi economica dilagante, ci ritroveremo tutti quanti ad accattonare sotto un ponte. Tuttavia, chi ha studiato scienza dei materiali qualche vantaggio potrà averlo lo stesso. Ad esempio, potrà stimare meglio le proprietà isolanti di un cartone con il quale coprirsi durante la notte, o valutare su quale superficie coricarsi per raffreddarsi meno». Forse, se riuscissimo a far comprendere questo ai giovani, potremmo convincerli a studiare. Nonostante tutto!
Note
1) A Finos, “«Smetto quando voglio», il colpo dei soliti ignoti al tempo del precariato”, la Repubblica, 31 gennaio 2014;
3) Progetto ministeriale per incentivare i giovani a intraprendere studi scientifici:
http://www.progettolaureescientifiche.eu/ .
http://www.progettolaureescientifiche.eu/ .