La biologia delle credenze
Bruce Lipton
Macro Edizioni, 2006
pp. 256, € 16,50
Recensione di di Renato Serafini
Si tratta di un libro che si inserisce nel filone della cosiddetta “biologia energetica”, che attribuisce, cioè, molta importanza all’“energia” che possiamo “trasferire” al nostro corpo (e quindi alle nostre cellule) con l’obiettivo di ottenere un migliore stato di salute complessivo degli individui.
Il libro si muove in tre ambiti, che cerca di collegare insieme in una visione unitaria: un ambito psicologico, un ambito legato alla biologia cellulare e un altro ambito legato alla fisica quantistica.
Nel primo ambito viene sottolineata un’interpretazione olistica dell’individuo, pensato come un’entità in cui corpo e mente, aspetti spirituali e biologici, sono indissolubilmente legati. E vengono ripresi concetti tipici della psicanalisi (importanza dell’inconscio) e della psicologia cognitivista (influenza dell’attaccamento genitoriale nell’evoluzione dell’individuo).
Nell’ambito della biologia cellulare viene supportato un approccio epigenetico, secondo cui il nostro patrimonio genetico può essere condizionato da aspetti ambientali e anche dai nostri stessi comportamenti. Arrivando a sostenere, in modo decisamente azzardato, che il nostro pensiero e il nostro atteggiamento possano modificare il nostro patrimonio genetico.
La terza componente è quella fisica, dove vi è un continuo richiamo alla fisica quantistica, che dovrebbe giustificare, a detta dell’autore, le argomentazioni energetiche.
Ecco due tra le affermazioni più discutibili sul piano della fisica (pag. 115):
1. «La struttura dell’atomo è formata da un insieme di vortici di energia infinitamente piccoli chiamati quark e fotoni».
2. «I fisici quantistici scoprirono che gli atomi materiali sono formati da vortici di energia in costante vibrazione e rotazione, ogni atomo è come una trottola in rotazione, che oscilla ed emette energia. Poiché ciascun atomo ha una sua specifica configurazione energetica (oscillazione), gli aggregati di atomi (molecole) emettono collettivamente modelli energetici che li identificano. Ciò significa che qualunque struttura fisica dell’Universo, compresi voi ed io, irradia una specifica configurazione energetica».
Il primo fisico che evidenziò le connessioni tra la scienza occidentale (con particolare riferimento alla relatività e alla fisica quantistica) e la spiritualità orientale (con particolare riferimento all’induismo, al buddismo e al taoismo) fu probabilmente Fritjof Capra nel suo famoso libro Il tao della fisica pubblicato in Italia nel 1982. Capra è un ottimo fisico e descrive in quel bel libro l’Universo come una “danza cosmica”. «La fisica moderna - scrive Capra - rappresenta la materia non come passiva e inerte, bensì in una danza e in uno stato di vibrazione continua. Questo è anche il modo con cui i mistici orientali vedono il mondo materiale». Ci si riferisce qui in particolare alla visione che la fisica quantistica ha del mondo atomico, dove ciò che appare statico a livello macroscopico è dinamico a livello microscopico. Per esempio la semplice forza di repulsione tra due elettroni non è che la manifestazione dello scambio continuo di fotoni tra i due elettroni.
Da queste considerazioni sul continuo movimento del mondo atomico, sono poi nate interpretazioni fisiche “alternative”, che hanno dato luogo, tra l’altro, alle scuole “energetiche”, cui appartiene anche il nostro autore; secondo il quale un atomo, in quanto composto di elementi dinamici sempre in movimento (definiti come “vibrazioni”), emetterebbe continuamente energia. Ma sappiamo che un atomo secondo la meccanica quantistica emette energia (sotto forma di onde elettromagnetiche) solo quando è eccitato, cioè quando cambia il suo stato energetico, emettendo frequenze specifiche che lo caratterizzano. D’altra parte, se un atomo emettesse continuamente energia, la sua energia dovrebbe diminuire e gli elettroni collassare sul nucleo.
Ancora più singolare è la seconda citazione sopra riportata, dalla quale si dedurrebbe che ad ogni oggetto fisico (microscopico o macroscopico) viene associata una specifica “frequenza di vibrazione”; e quindi non solo un atomo, ma anche una sedia, un cane o un uomo sarebbero caratterizzati da una specifica frequenza di vibrazione e irradierebbero con continuità su questa frequenza.
Forse questa interpretazione è nata generalizzando, in modo improprio, quanto accade per le onde elettromagnetiche, dove un “quanto” di energia E è associato direttamente alla sua frequenza dalla semplice relazione E = hf, h essendo la costante di Planck e f la frequenza dell’onda.
O forse ci si è lasciati influenzare dal principio quantistico del dualismo “onda-particella”, secondo cui ogni oggetto materiale può essere pensato anche come un’onda. Se fosse questa la “vibrazione” cui si riferisce la biologia energetica, l’incomprensione sarebbe ancora più grave. Infatti questo tipo di “onda quantistica” è solo un’astrazione matematica che è utilizzata per descrivere le proprietà della particella (ad esempio la probabilità di trovarla in una certa posizione). L’“onda quantistica” non ha cioè alcuna realtà fisica e non trasporta energia (diversamente dalle onde elettromagnetiche). Inoltre per gli oggetti macroscopici questa onda diventa irrilevante e tutte le associate proprietà quantistiche diventano trascurabili e assolutamente non misurabili.
Insomma che cosa siano queste vibrazioni associate alla materia (microscopica o macroscopica) non è per nulla chiaro, almeno dal punto di vista della fisica.
Nel complesso, può essere considerato un vero peccato il fatto che alcune interessanti osservazioni siano offuscate da argomentazioni fisiche e biologiche del tutto improprie.
Le metamorfosi di Atlantide.
Storie scientifiche e immaginarie da Platone a Walt Disney
Marco Ciardi
Carocci, 2011
pp. 184, € 14,00
Recensione di Silvano Fuso
Marco Ciardi, laureato in filosofia all'Università di Firenze con Paolo Rossi e dottore di ricerca in Storia della Scienza, è attualmente professore associato di Storia della Scienza e delle Tecniche presso l'Università di Bologna. È un affermato storico e fa parte del Comitato Direttivo del Gruppo Nazionale di Fondamenti e Storia della Chimica, del Comitato di Redazione della rivista internazionale Galilaeana. Journal of Galilean Studies, della rivista della Società Chimica Italiana CnS - La Chimica nella scuola (per la quale è responsabile editoriale della sezione “Chimica e storia della scienza”). È inoltre membro di numerose autorevoli istituzioni che si occupano di storia della scienza.
L’autore ha quindi tutte le carte in regola per trattare in modo attendibile la storia di Atlantide, il mitico continente sommerso di cui parla per la prima volta Platone in due celebri dialoghi, il Timeo e il Crizia. E non è la prima volta che Ciardi dedica all’antico continente scomparso le sue attenzioni. Nel 2002 aveva infatti già pubblicato, per lo stesso editore, Atlantide. Una controversia scientifica da Colombo a Darwin, giudicato lavoro di «straordinaria qualità» dall’illustre storico francese Pierre Vidal-Naquet.
Come dice lo stesso autore nell’Introduzione (“Istruzioni di viaggio per la ricerca di Atlantide”): «sul mito di Atlantide sono stati scritti migliaia di volumi. [...] questi libri sono catalogabili in due grandi categorie: quella dei sostenitori della veridicità del mito [...] e quella degli scettici [...] tutti hanno buone ragioni da vendere [...] in questi testi c’è tuttavia una grande assente, la storia». L’autore, nel suo volume, cerca proprio di supplire a questa mancanza.
Nel primo capitolo, intitolato “Dal mito alla scienza”, l’autore ripercorre in modo rigoroso e con dovizia di dettagli storici, il percorso che l’idea di Atlandide ha compiuto dal suo primo apparire in Platone, passando per gli scritti di altri autori antichi e medioevali, per arrivare all’epoca illuministica. Quello che emerge è che in passato serissimi studiosi, filosofi e scienziati, presero molto sul serio l’ipotesi della reale esistenza di Atlantide, anche se non mancarono coloro che la considerarono una semplice invenzione. Nel secondo capitolo, “Dalla scienza alla letteratura”, viene invece mostrata la progressiva trasformazione di Atlantide da problema scientifico a modello letterario che si verificò dall’Ottocento in poi. Se persino illustri scienziati, quali Charles Darwin, si interessarono ancora di Atlantide, successivamente il continente perduto divenne patrimonio di letterati e di cultori di discipline esoteriche (particolarmente interessante per i cicappini è il paragrafo “Lo spiritismo e la nascita dell’Atlantide esoterica”). Nel terzo capitolo, “Dalla letteratura al cinema”, viene illustrato come Atlantide divenne ben presto un soggetto gustoso per gli autori di fantascienza sia letteraria (a cominciare da Jules Verne, che ne descrive la scoperta in Ventimila leghe sotto i mari, senza escludere Arthur Conan Doyle), che cinematografica e fumettistica. Nel quarto capitolo, “Dov’era Atlantide?”, si affronta il problema della sua localizzazione geografica con ampi riferimenti agli studi archeologici, alla divulgazione scientifica, alla moderna letteratura fantascientifica e alle varie ipotesi più o meno pseudoscientifiche che sono state formulate relativamente ad Atlantide, senza trascurare le posizioni degli scettici a oltranza.
Dopo la piacevolissima lettura dei primi quattro capitoli, il lettore ha oramai raccolto una serie incredibile di informazioni su Atlantide ma, giustamente, viene attanagliato da una pressante domanda: ma in definitiva Atlantide è mai esistita? E se sì, dove era realmente localizzata? L’autore promette di soddisfare la curiosità del lettore nella Conclusione, intitolata in modo accattivante “Martin Mystère e la soluzione dell’enigma”. Naturalmente non sveleremo del tutto la soluzione (ammesso che ci sia) per non togliere al lettore il gusto della lettura del libro, avvincente come quella di un romanzo giallo. Diciamo solo che, come preannunciato dal titolo, per trovare la soluzione l’autore si avvale dell’aiuto di quello che viene definito “il detective dell’impossibile”, ovvero Martin Mystère, il celebre personaggio dei fumetti creato dal grande Alfredo Castelli, che in diverse occasioni si è occupato di Atlantide.
L’autore sposa in pieno la posizione prudenziale ed equilibrata espressa più volte da Castelli. Posizione che Ciardi ritrova anche nelle parole del fisico teorico Michio Kaku che sostiene che «per ironia della sorte, spesso lo studio approfondito dell’impossibile ha consentito di accedere a nuovi sorprendenti domini della scienza». Posizione che, tutto sommato, può essere fatta propria anche dal CICAP. Nonostante, infatti, gli studi sul paranormale abbiano da decenni fornito risultati negativi, il CICAP continua pazientemente, ad esempio, a sottoporre a controlli sedicenti sensitivi. Non si illude certo di trovarne finalmente uno autentico, ma sicuramente lo studio di questi soggetti può essere estremamente utile per comprendere meglio la psicologia umana, l’ingannevolezza della mente, gli errori metodologici che si possono compiere, le precauzioni che occorre adottare, ecc. In modo del tutto analogo, Ciardi sostiene che «Un identico discorso può essere fatto per Atlantide, la cui ricerca può portare al conseguimento di risultati scientifici, archeologici, filologici e filosofici oggi inimmaginabili (senza contare quelli che ha già contribuito a determinare)».
È piuttosto interessante che un approccio prettamente storico come quello di Ciardi porti in definitiva a conclusioni pienamente condivisibili anche da chi, come il CICAP, ha invece un approccio puramente scientifico. Ma se ci si riflette un attimo, la coincidenza non è poi così sorprendente. Le conclusioni sono infatti quelle cui porta semplicemente l’applicazione della razionalità e dello spirito critico che accomunano evidentemente sia l’approccio storico che quello scientifico (...e non dimentichiamo poi che Martin Mystère e Alfredo Castelli sono grandi amici del CICAP!).
La porta di Atlantide
Giulio Leoni
Recensione di Andrea Albini
Iromanzi su Atlantide sono solo una parte dell’impressionante quantità di libri pubblicati sull’argomento e che comprendono saggi scientifici o pseudoscientifici, divulgazione, opere di ispirazione occultistica e new age, e persino poemi epici e poesie. Testo incompiuto dal filosofo Platone, posto all’interno di un testo - e di un’opera - più ampia, in cui si parla fondamentalmente della costituzione della “città ideale”, il racconto di Atlantide narra di una guerra avvenuta in tempi preistorici tra la città di Atene e una misteriosa città-impero-isola che si trovava oltre le Colonne di Ercole e che una catastrofe inghiottì nelle acque, novemila anni prima di essere raccontata per la prima volta da Platone.
Oggi dell’intera storia perlopiù rimane solo la visione ipnotica di una città “barbarica”, delle mura circolari e dai templi e palazzi sfarzosi: un luogo “altro” che si presta a stimolare la fantasia. Jules Verne ce ne fece appena scorgere le rovine in Ventimila leghe sotto i mari e da allora, a partire dagli ultimi due decenni dell’Ottocento, vi fu un profluvio di romanzi e racconti di largo consumo in cui Atlantide, più che evocata, era riscoperta in luoghi ancora inesplorati e fuori mano, e talvolta si trovava sul fondo del mare protetta da una cupola trasparente, a rappresentare un mondo alternativamente minaccioso o minacciato.
Nella maggior parte dei romanzi dalla seconda metà del Novecento - e ancora più nella nostra epoca di satelliti e di Google Maps - la città di Atlantide sembra definitivamente morta e ridotta a una reliquia del passato. Ma questo non significa che, nell’immaginario narrativo, essa non sia esistita; e che rimangano i suoi resti nascosti, che qualcuno concupisce. È quanto avviene, ad esempio, nel romanzo d’azione di Andy McDermott In Cerca di Atlantide (TEA 2009), o in Atlantide di Cleve Cussler (Longanesi 2000): libri improntati sulla lotta tra il bene e il male, e in cui i “cattivi” nel primo caso hanno l’intenzione di impadronirsi del DNA degli antichi re di Atlantide, mentre nel secondo vogliono provocare di nuovo una grande catastrofe naturale, facendo spostare l’asse di rotazione terrestre.
Con il romanzo La Porta di Atlantide di Giulio Leoni, pur restando nell’ambito della “narrazione di genere”, il piano narrativo si sposta su un livello di maggiore raffinatezza, se non altro perché l’autore porta il “tema di Atlantide” in quella zona incerta tra verità e affabulazione storica che è propria del racconto platonico sull’isola sommersa. Come in ogni mystery e thriller che si rispetti, nel libro convergono un intreccio di storie e di trame che alla fine portano a una composizione del mosaico. L’autore, che ha pubblicato una serie di polizieschi con Dante Alighieri come investigatore, è informato sulla letteratura su Atlantide e coinvolge i lettori senza dimenticare l’ironia. Nella trama troviamo l’anonimo narratore (che è uno scrittore di gialli); la bella e stranita ragazza slava Vanja, che ha creduto ai racconti sulla “patria perduta” del nonno criminale nazista; e un ambiguo conte Ubaldini, che prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale ha cercato di convincere persino i tedeschi dell’Ahnenerbe (l’organizzazione nazista per lo studio della “eredità ancestrale”) di avere trovato un’Atlantide tirrenica al largo delle coste toscane.
Nonostante la necessità narrativa di “rendere il meraviglioso” non è difficile percepire nel romanzo, accanto al richiamo del fantastico, la voce della realtà. Insieme ai truffatori e ai cinici, ai ladri di antichità etrusche, ai trafugatori di bottini di guerra e alle lobby del petrolio, nel libro troviamo gli ingenui e gli illusi: come i ricercatori di una antica macchina per il moto perpetuo capace di risolvere i problemi energetici e chi crede che Ubaldini fosse in contatto medianico con le anime degli Atlantidi attraverso una sensitiva.
“È stupefacente come gli uomini siano disposti a convincersi di tutto pur di dar corpo ai loro sogni” dice al protagonista una filosofica spia industriale americana. Ma accanto ai sogni, qualcosa prende forma: nel 1633 il grande scienziato Galileo Galilei aveva fatto costruire un prodigioso planetario eliocentrico poi nascosto nella capitale del ducato di Castro in Maremma, prima che il papa facesse radere tutto al suolo. Si trattava di una tecnologia che derivava dall’antica Atlantide? Nel romanzo la sradicata e traumatizzata Vania vuole crederlo, insieme alla storia degli antenati atlantidei. “Credi che quel popolo è esistito davvero?” chiede sul finale la ragazza al narratore protagonista. E questi, pur giunto al termine di un turbine di false piste, mistificazioni e verità parziali non può che risponderle: “Non lo so, forse sì”. E una speranza su Atlantide non si nega a nessuno, soprattutto negli spazi della letteratura.
La Fisica della Domenica
Sironi Editore, 2011
pp. 194. € 16,00
Recensione di Luca Menichelli
Fino a non molti anni fa la comprensione di testi scientifici, in particolare di fisica, la materia che viene definita la scienza “dura” per eccellenza, prevedeva la conoscenza di svariate nozioni almeno basilari riguardanti i vari ambiti che si andava a studiare. Se ne deduce che l’interesse per la scienza era appannaggio solo di addetti ai lavori e, documentari televisivi a parte, il semplice appassionato o curioso difficilmente era in grado di trovare un testo di fisica di facile comprensione che, oltre a spiegare, fosse in grado di essere anche una lettura di intrattenimento. Da qualche anno qualcuno si è accorto che la scienza deve rivolgersi ad un target molto più ampio e si propongono perciò testi di divulgazione scientifica che affrontano i temi più disparati, in maniera approfondita, ma senza la necessità di tecnicismi incomprensibili ai più e prendendo come spunto le meraviglie della vita quotidiana.
Tutto è fisica.
È questo il messaggio che vuole trasmettere Michele Marenco con il suo La fisica della domenica. Seguendo questa filosofia, il fisico triestino insegnante e appassionato di bicicletta, esplora le meraviglie nascoste dietro ad una bella passeggiata domenicale spiegando in trenta capitoli altrettanti fenomeni fisici che fanno parte della quotidianità.
Analizzando i quattro elementi e le azioni comuni, si potrà scoprire come ottimizzare una passeggiata in bicicletta risparmiando energia attraverso la conoscenza dell’attrito e dell’aerodinamica, perché le leggi dell’idrodinamica siano alla base di un ingorgo autostradale o cosa renda possibile lo spettacolo offerto da un arcobaleno che appare dopo la pioggia.
Il linguaggio adoperato nel libro è frutto dell’esperienza dell’autore in campo didattico e la narrazione scorre senza citazioni o rimandi ad altri argomenti correlati, caratteristica che rende agevole la comprensione dei concetti. Malgrado la semplicità nel linguaggio, che utilizza solo parole senza sentire il bisogno delle “temute” formule matematiche, gli argomenti vengono ben approfonditi e pagina dopo pagina, anche grazie alle utili illustrazioni, si entra in contatto con un mondo nascosto, il cui fascino si cela all’interno delle meraviglie della fisica, la scienza che regola l’intero universo, ma che senza l’esistenza di libri come questo resterebbe appannaggio di pochi eletti e prigioniera di aule universitarie o laboratori di ricerca.
La scienza di tutti i giorni
Andrea Frova
BUR Scienza 2010
€ 18,00
Recensione di Lorenzo Montali
Andrea Frova è uno scienziato - è professore ordinario di Fisica generale all’Università La Sapienza di Roma - che ha la passione per la divulgazione. Una passione testimoniata da diversi testi, tra cui ci limitiamo a ricordarne solo due: Se l’uomo avesse le ali che ha vinto nel 2008 il premio Galileo e il fortunato Perché accade ciò che accade.
Come scrive il giornalista Pietro Greco nella sua introduzione, se è vero che la nostra è la società della conoscenza allora «la cultura scientifica è più che mai un bisogno sociale diffuso: proprio perché la scienza informa di sé tutte le dimensioni dell’attività umana, da quella culturale a quella economica, da quella etica a quella politica». In questa accezione, la divulgazione scientifica non ha solo un pur importante valore culturale, ma si propone quale fattore di inclusione sociale, in quanto fornisce al maggior numero possibile di persone quegli elementi di consapevolezza che ne fanno cittadini attrezzati e sufficientemente competenti, capaci di cogliere sfide e criticità del loro tempo. Si tratta di un compito non semplice poiché, come ricorda ancora Greco citando il fisico americano Alan Cromer, la scienza è uncommon sense: conoscenza lontana dal senso comune. Questa distanza si esprime in modi diversi, ciascuno dei quali rende più difficile il compito di raccontare la scienza. È una lontananza dal punto di vista del linguaggio, il che implica la necessità di costruire una comunicazione che sia accessibile e interessante senza rinunciare al rigore tipico di una disciplina scientifica. È una lontananza di tipo strutturale, essendo la scienza moderna fortemente specializzata, mentre il senso comune è per definizione generale e generalista.
Ciò significa che il racconto della scienza deve riuscire a rendere comprensibile il senso più profondo e più complesso delle scoperte, pur senza rinunciare allo sguardo dettagliato dello scienziato. È una lontananza, infine, sul piano degli esiti poiché i ‘prodotti’ della scienza contemporanea costituiscono una continua sfida per il senso comune, costretto a ridefinire quadri di lettura della realtà che apparivano fissati per sempre nella loro ovvietà e naturalità. Basti pensare al tema della fecondazione assistita, che ha determinato la separazione tra atto sessuale e procreazione e tra procreazione e genitorialità, due binomi che erano prima assunti come indiscutibili sul piano della realtà, prima ancora che su quello etico. Questo comporta, per chi si assume il compito della divulgazione, la necessità di offrire una lettura della scienza che la riavvicini al mondo che le persone sperimentano, evidenziandone le ricadute nell’ambito del quotidiano. Il libro di Frova assume in pieno questo intento, essendo dedicato alla scienza del quotidiano, quella con cui veniamo in contatto tutti i giorni, ma di cui la maggior parte di noi è poco consapevole. Per ancorare il più possibile il discorso al quotidiano, i primi cinque capitoli del libro sono centrati su oggetti e fenomeni che incontriamo nella nostra esperienza: la luce, il suono, l’acqua e il fuoco e alle forze essenziali attraverso le quali la vita si è prodotta. Nel sesto, invece, si parla di sport - dallo sci al golf, dall’atletica leggera al rugby e al ciclismo - mostrando come la fisica e la chimica possano aiutare a comprendere azioni ed effetti che mille volte abbiamo osservato o sperimentato senza magari soffermarci sulle cause che li producevano. Nell’ultimo capitolo, infine, si rialzano gli occhi al cielo, per parlare dell’universo, in una logica che valorizza la capacità dell’uomo di costruire conoscenza, quella che, a partire da Galileo, ha consentito, come scrive Frova, «di scoprire nell’arco di meno di quattro secoli molti dei segreti più reconditi dell’universo intero, avendo come base un angolino marginale, insignificante».
Se ho insistito sulla difficoltà di costruire divulgazione scientifica è perché il libro mi pare un esempio importante di come sia possibile realizzare una comunicazione allo stesso tempo credibile e interessante se si assume in pieno la consapevolezza della complessità del compito. Mi ha colpito, infatti, laquantità di strategie che vengono utilizzate nel testo per avvicinarsi al lettore, per coinvolgerlo e appassionarlo, il che segnala proprio lo sforzo di scrivere mettendo il lettore, e non l’autore, al centro. Si tratta di strategie sia sul piano della forma che su quello dell'articolazione del discorso. Per quanto riguarda le prime, penso per esempio alle domande poste all’inizio di ogni paragrafo, che rendono evidenti le ricadute di discorsi di ordine generale o sollevano quesiti curiosi, o al largo uso di immagini, che rendono accattivante il testo e che attirano l’attenzione del lettore. Ma le più rilevanti sono senz’altro le scelte di contenuto. Mi riferisco qui al racconto di episodi curiosi che hanno riguardato la vita di scienziati importanti, per esempio la storia del rapporto tra Newton e Hooke o alla capacità dell’autore di arricchire il suo racconto di riferimenti di ordine culturale, da Dante allo Sturm un drang a Beethoven e Mozart. Il terzo elemento è la scelta di inserire in ogni capitolo diversi paragrafi intitolati “Scienza fatta in casa”, nei quali si spiega come replicare a casa propria alcuni dei fenomeni che sono stati presentati nel testo.
Complessivamente si tratta di operazioni attraverso le quali si restituisce un’immagine più realistica e meno astratta di un mondo e dei suoi personaggi, realizzando così un’operazione di ‘avvicinamento’ del lettore alla scienza e agli scienziati che mira a ridurre, per quanto possibile, il gap tra scienza e senso comune.
Tutti i racconti del mistero, dell’incubo e del terrore
E. A. Poe
Newton, 2010
pp. 448, € 7,00
Recensione di Anna Rita Longo
Avvolto dalle tenebre di una scura prigione, un uomo si sveglia in una situazione angosciante: è strettamente legato da funi e al di sopra di lui pende una lama che oscilla abbassandosi progressivamente, promettendo di dilaniarlo non appena si sarà avvicinata abbastanza...
Un’antica dimora con tanto di cripta e cadavere crolla maestosamente trascinando con sé tutto il proprio mistero...
La colpa di un brutale assassinio viene incredibilmente svelata dal palpitare del cuore della vittima, che evidentemente non si rassegna a rimanere tranquilla nell’oltretomba...
Le sequenze sopra descritte - ma gli esempi sarebbero potuti essere molti altri - sembrerebbero tratte da uno dei tanti film dell’orrore pronti a raccogliere i favori del botteghino, mentre più di 150 anni le separano dall’industria cinematografica dei nostri giorni. In effetti, il concetto stesso di horror, che tanto importante ruolo riveste nel mercato della cinematografia e della letteratura contemporanea, si può dire già perfettamente maturo in tutte le sue caratteristiche fondamentali a partire dall’opera dello scrittore statunitense Edgar Allan Poe, che seppe staccarsi dai canoni del romanzo gotico sette-ottocentesco per dar vita a un modo del tutto nuovo di “fare paura”. Come abbiamo già avuto occasione di mettere in evidenza nelle pagine di Query, il gothic novel è un genere letterario estremamente cristallizzato, che si caratterizza per l’uso di una serie di stereotipi che, alla lunga, possono portare il lettore a una sorta di assuefazione e, in generale, a uno stemperarsi della tensione narrativa. La scarsa attenzione alla dimensione psicologica dei personaggi e il conseguente sovrapporsi di tutte le figure di eroe ed eroina presentate al lettore (tutte così simili e, quindi, indistinguibili) è il principale limite di questo genere, all’interno del quale pochi romanzi di grande valore letterario si staccano da un nutrito insieme di testi pressoché riprodotti in serie.
La svolta fondamentale dei racconti di Edgar Allan Poe sta proprio nell’aver calato tutti questi luoghi comuni all’interno della mente umana, della vita, della storia e dei pensieri dei suoi protagonisti. Chi si appresta a leggere l’opera di Poe non può non accorgersi che gli uomini di cui lo scrittore parla sono incredibilmente simili a lui, che provano le paure con le quali tutti prima o poi sono costretti a fare i conti; in breve, che il protagonista è il lettore stesso, suo il terrore descritto nelle pagine, suo lo spasmodico desiderio di esserne liberato. Il coinvolgimento emotivo passa, dunque, attraverso la profonda identificazione tra io narrante e lettore, e tutto ciò a monte della riflessione narratologica che ha reso questa tecnica una carta vincente della narrazione horror, poliziesca o noir.
All’interno del nutrito gruppo dei racconti, si possono distinguere alcune direttrici fondamentali. Vi è, ad esempio, il filone antesignano del vero e proprio poliziesco, rappresentato da un capolavoro quale I delitti della Rue Morgue, nel quale la testimonianza contraddittoria di più testimoni di un delitto viene a creare un intreccio apparentemente insolubile, che poi si ricompone attraverso un esame razionale dei fatti. Un plot che non ha nulla da invidiare alle sublimi architetture di Arthur Conan Doyle e di Agata Christie, con in più una sfumatura di inquietudine che non viene annullata completamente dalla soluzione del caso.
C’è poi la nutrita serie di racconti che si indirizzano alla rappresentazione di paure o ossessioni ataviche dell’uomo, quali la repulsione/attrazione nei riguardi della morte (si veda, ad esempio, La rovina della casa degli Usher), il sentimento di piccolezza nei riguardi delle forze della natura (Una discesa nel Maelström), il terrore di essere sepolti vivi (Il barile di Amontillado, La sepoltura prematura). Sono forse queste le opere nelle quali si registrano i più interessanti elementi di novità nella produzione letteraria di Poe: è qui, infatti, che la dimensione umana viene maggiormente sottolineata e amplificata.
Vi sono, infine, racconti nei quali la dimensione paranormale risulta più sviluppata e al terrore psicologico si sostituisce, man mano che si procede nella narrazione, un’atmosfera da ghost-story. Appartiene a questa categoria il celeberrimo racconto in forma poetica Il corvo, ma anche Il gatto nero e Il cuore rivelatore.
Ma quali elementi mi spingono a consigliare al lettore della nostra rivista la riscoperta di questo classico della letteratura? Il pregio letterario degli scritti di Poe non è, naturalmente, in discussione, ma, a ben vedere, queste short stories presentano anche una caratteristica che mi fa guardare ad esse come utili mezzi per esercitare il senso critico: chi le legge comprende facilmente che molte delle paure che ci attanagliano sono il frutto della nostra mente, dei suoi limiti e delle sue ossessioni. Come tali, possono, dunque, essere sconfitte facendo leva sulle risorse positive della mente stessa, che ci hanno consentito di vincere sfide in passato percepite come impossibili. Si tratta di una “morale della favola” che ben sintetizza quello che da più di 20 anni il CICAP ha sostenuto attraverso le sue meritorie attività.
Sironi Editore, 2011
pp. 194. € 16,00
Andrea Frova
BUR Scienza 2010
€ 18,00
E. A. Poe
Newton, 2010
pp. 448, € 7,00