Che cos’hanno in comune Michael Shermer, Richard Dawkins, Joe Nickell e James Randi? Sono tutti scettici famosi, ma le loro interpretazioni dello scetticismo sono differenti. Da una parte Joe Nickell indaga casi misteriosi in giro per il mondo, dalla Sindone ai diari di Jack lo Squartatore, mentre Randi smaschera i truffatori dell’occulto e mette alla prova gli aspiranti vincitori del suo premio destinato a chi dimostri facoltà paranormali: sono specialisti in indagini e sperimentazioni. Dall’altra parte, Richard Dawkins e Michael Shermer si dedicano soprattutto a contrastare le affermazioni delle pseudoscienze più varie, dal creazionismo alle medicine alternative, e a promuovere il punto di vista scettico e scientifico: la loro competenza principale è la divulgazione.
Lo stesso vale per gli scettici italiani: è difficile immaginarsi un Lorenzo Montali chino sul bancone di laboratorio a provare diverse misture per realizzare la migliore riproduzione del sangue di san Gennaro, mentre per Gigi Garlaschelli la condanna più crudele sarebbe probabilmente quella di passare tutto il tempo sui libri senza più potersi “sporcare le mani” a investigare sul campo.
Benissimo; ma qual è l’autentica vocazione dello scettico, l’indagatore o il divulgatore? Come si conciliano le due anime dello scetticismo?
La distinzione tra i due ruoli è diventata più critica man mano che i gruppi scettici hanno esteso i propri interessi a temi sempre più complessi e delicati.
Nel passato gli scettici affrontavano prevalentemente temi come lo spiritismo, la parapsicologia e l’astrologia: il paranormale “classico”, per così dire. Argomenti che la comunità scientifica, con qualche sporadica eccezione, non sfiorava nemmeno, considerandoli spazzatura culturale. Del resto, non c’era bisogno di scienziati, almeno per una prima analisi, ma bastava quello che Carl Sagan chiamava “baloney detection kit” e che potremmo tradurre in “fuffometro”. Le affermazioni sono falsificabili, almeno in linea di principio? Sono basate su prove concrete o sul principio di autorità? Ci sono dati quantitativi? Che cosa ne dice il rasoio di Occam?
Con il tempo le cose sono cambiate e il nostro compito si è fatto più difficile. Seguendo gli interessi del “popolo del mistero”, abbiamo finito con il dedicarci un po’ meno al paranormale e un po’ più alle pseudoscienze e alle teorie del complotto. Oggi non ci occupiamo soltanto di chi (almeno a parole) muove gli oggetti con il pensiero o entra in contatto con gli spiriti, ma anche di chi ha scoperto una nuova cura per il cancro o una nuova fonte di energia pulita, oppure di chi propaganda i pericoli dei vaccini o delle scie chimiche.
Aver allargato il raggio di azione è una scelta ragionevole perché anche queste nuove affermazioni hanno molto in comune con quelle vecchie in termini di atteggiamento pseudoscientifico, mentalità irrazionale, errori logici. Affrontarle ci permette di portare avanti il nostro lavoro di educazione al metodo scientifico e alla razionalità usando gli argomenti che interessano al pubblico di oggi.
Ma distinguere tra scienza e pseudoscienza è diventato più difficile. La separazione non è sempre netta, ci sono sfumature intermedie. Esempi come l’Intelligent Design o le teorie alternative sull’AIDS, dove gli errori metodologici sono nascosti e la loro analisi richiede di entrare abbastanza nei dettagli sul modo di procedere della scienza. Episodi di “scienza patologica”, per usare il termine coniato da Irving Langmuir: autentici scienziati che per non mettere in discussione i propri risultati si distaccano parzialmente dal metodo scientifico e sviluppano alcuni atteggiamenti pseudoscientifici. “Scienze di confine” di recente formazione, dove la completa applicazione del metodo scientifico è ancora controversa ma ha le potenzialità per essere riconosciuta in futuro. Casi come la teoria del riscaldamento globale di cui ci siamo occupati nel primo numero di Query, in cui la controversia entra anche all’interno dell’ambiente accademico, dove diversi schieramenti si scambiano accuse di pseudoscientificità.
È in casi come quest’ultimo che l’animo divulgatore e quello indagatore possono entrare in conflitto. Come divulgatori dovremmo limitarci a esporre il punto di vista prevalente tra gli scienziati, ma come indagatori dovremmo metterlo in discussione: dopotutto la scienza non può certo essere esente dall’analisi critica, e la storia è ricca di esempi antichi e recenti, dalla deriva dei continenti al batterio dell’ulcera, in cui la maggioranza degli scienziati aveva semplicemente torto.
È anche un dilemma etico. In qualità di organizzazioni scettiche abbiamo la responsabilità di proporci come fonti di informazioni obiettive e controllate, nelle quali il nostro pubblico ripone fiducia, ma il “fuffometro” di Sagan è uno strumento troppo poco oggettivo per soppesare le teorie scientifiche come quella del riscaldamento globale. Chi tende a essere critico verso gli ambientalisti troverà che il fuffometro fa suonare un campanello di allarme sulle argomentazioni a loro favorevoli, ma lo stesso accadrà con le tesi contrarie a chi invece è più diffidente nei confronti di queste ultime. È una valutazione troppo qualitativa per poterne tenere fuori i nostri pregiudizi e dobbiamo stare attenti a non scambiare per fatti accertati nostre opinioni non qualificate. D’altra parte non possiamo nemmeno cavarcela evitando di affrontare gli argomenti scottanti. Che cosa dobbiamo fare?
Se n’è occupato qualche tempo fa su skepticblog Daniel Loxton, il direttore di Skeptic Junior, proponendo alcune regole empiriche che possono servirci a capire quando è opportuno fare gli indagatori e quando i divulgatori[1]. Le riassumiamo e adattiamo qui:
1) Quando un argomento pseudoscientifico o paranormale non è oggetto di studio accademico, gli scettici sono gli esperti principali: possiamo fare un vero e proprio lavoro di ricerca originale e mettere i nostri risultati a disposizione di tutti. È il caso degli UFO, dell’astrologia, dei cerchi nel grano, e di tutti gli esempi “classici” di affermazioni sul paranormale. In questi campi il nostro compito, importante e riconosciuto dai media, è fare le indagini rigorose che non fa nessun altro: gli scienziati perché non se ne interessano, gli appassionati perché non sanno usare il metodo scientifico. Occasionalmente possiamo anche aiutare gli scienziati a non prendere cantonate, come mostra l’esempio del progetto Alpha di James Randi.
2) Quando l’argomento è oggetto di interesse accademico e c’è consenso scientifico, ma anche una frangia pseudoscientifica o “negazionista”, il nostro contributo può essere prezioso. È il caso dell’Intelligent Design, delle teorie alternative sull’AIDS e così via. In questo caso, ci sono due tipi distinti di competenze: la conoscenza delle pseudoscienze, che è il nostro campo specifico, e la conoscenza della letteratura scientifica che le smentisce, settore nel quale tipicamente non siamo esperti e dobbiamo limitarci a riferire lo stato dell’arte. Anche in questo caso possiamo insegnare qualcosa agli scienziati. Se prendiamo come esempio l’Intelligent Design, i biologi evoluzionisti che non conoscono a fondo il modo di argomentare degli pseudoscienziati rischiano di trovarsi in difficoltà nei dibattiti pubblici, e la nostra competenza specifica è molto utile; ma non per questo possiamo sostituirci ai biologi nello spiegare la teoria dell’evoluzione, che non è - generalmente - il nostro campo.
3) Quando la discussione si svolge sul piano degli studi scientifici, sia che abbia raggiunto un consenso sufficiente sia che sia ancora aperta, il nostro compito è proprio quello di fare divulgazione, non quello di prendere posizione in qualità di scettici. È il caso, per esempio, del riscaldamento globale. Anni di esperienza nell’indagare le affermazioni sul paranormale (punto 1) possono illuderci di saper individuare immediatamente le tesi scientificamente infondate in qualsiasi altro campo. Ma nei settori specialistici di ricerca esprimere un parere qualificato presuppone competenze professionali di alto livello, che richiedono anni di studi e che non si possono acquisire con la lettura di qualche testo divulgativo. Se abbiamo queste competenze, dovremmo argomentare nella sede opportuna della letteratura scientifica peer-reviewed e non fare appelli sulla stampa popolare (scettica). Se non le abbiamo, non dobbiamo sfruttare il ruolo pubblico di scettici per promuovere le nostre opinioni personali non qualificate. Dobbiamo resistere alla tentazione di usare il “fuffometro” come scorciatoia per trovare una risposta definitiva a temi così complessi e dobbiamo limitarci a riferire il consenso della comunità scientifica. Questo non significa rinunciare alla nostra vocazione critica, ma riconoscere che nel caso in esame non abbiamo gli strumenti necessari per esercitarla.
Indagatori o divulgatori, quindi? La nostra collocazione unica a cavallo tra scienza e pseudoscienza ci impone di saper interpretare entrambi i ruoli, scegliendo quello corretto in funzione delle nostre competenze specifiche e dei nostri limiti. Nel mondo dello scetticismo c’è spazio sia per gli ammiratori di Randi e Nickell, sia per quelli di Dawkins e Shermer.
Lo stesso vale per gli scettici italiani: è difficile immaginarsi un Lorenzo Montali chino sul bancone di laboratorio a provare diverse misture per realizzare la migliore riproduzione del sangue di san Gennaro, mentre per Gigi Garlaschelli la condanna più crudele sarebbe probabilmente quella di passare tutto il tempo sui libri senza più potersi “sporcare le mani” a investigare sul campo.
Benissimo; ma qual è l’autentica vocazione dello scettico, l’indagatore o il divulgatore? Come si conciliano le due anime dello scetticismo?
La distinzione tra i due ruoli è diventata più critica man mano che i gruppi scettici hanno esteso i propri interessi a temi sempre più complessi e delicati.
Nel passato gli scettici affrontavano prevalentemente temi come lo spiritismo, la parapsicologia e l’astrologia: il paranormale “classico”, per così dire. Argomenti che la comunità scientifica, con qualche sporadica eccezione, non sfiorava nemmeno, considerandoli spazzatura culturale. Del resto, non c’era bisogno di scienziati, almeno per una prima analisi, ma bastava quello che Carl Sagan chiamava “baloney detection kit” e che potremmo tradurre in “fuffometro”. Le affermazioni sono falsificabili, almeno in linea di principio? Sono basate su prove concrete o sul principio di autorità? Ci sono dati quantitativi? Che cosa ne dice il rasoio di Occam?
Con il tempo le cose sono cambiate e il nostro compito si è fatto più difficile. Seguendo gli interessi del “popolo del mistero”, abbiamo finito con il dedicarci un po’ meno al paranormale e un po’ più alle pseudoscienze e alle teorie del complotto. Oggi non ci occupiamo soltanto di chi (almeno a parole) muove gli oggetti con il pensiero o entra in contatto con gli spiriti, ma anche di chi ha scoperto una nuova cura per il cancro o una nuova fonte di energia pulita, oppure di chi propaganda i pericoli dei vaccini o delle scie chimiche.
Aver allargato il raggio di azione è una scelta ragionevole perché anche queste nuove affermazioni hanno molto in comune con quelle vecchie in termini di atteggiamento pseudoscientifico, mentalità irrazionale, errori logici. Affrontarle ci permette di portare avanti il nostro lavoro di educazione al metodo scientifico e alla razionalità usando gli argomenti che interessano al pubblico di oggi.
Ma distinguere tra scienza e pseudoscienza è diventato più difficile. La separazione non è sempre netta, ci sono sfumature intermedie. Esempi come l’Intelligent Design o le teorie alternative sull’AIDS, dove gli errori metodologici sono nascosti e la loro analisi richiede di entrare abbastanza nei dettagli sul modo di procedere della scienza. Episodi di “scienza patologica”, per usare il termine coniato da Irving Langmuir: autentici scienziati che per non mettere in discussione i propri risultati si distaccano parzialmente dal metodo scientifico e sviluppano alcuni atteggiamenti pseudoscientifici. “Scienze di confine” di recente formazione, dove la completa applicazione del metodo scientifico è ancora controversa ma ha le potenzialità per essere riconosciuta in futuro. Casi come la teoria del riscaldamento globale di cui ci siamo occupati nel primo numero di Query, in cui la controversia entra anche all’interno dell’ambiente accademico, dove diversi schieramenti si scambiano accuse di pseudoscientificità.
È in casi come quest’ultimo che l’animo divulgatore e quello indagatore possono entrare in conflitto. Come divulgatori dovremmo limitarci a esporre il punto di vista prevalente tra gli scienziati, ma come indagatori dovremmo metterlo in discussione: dopotutto la scienza non può certo essere esente dall’analisi critica, e la storia è ricca di esempi antichi e recenti, dalla deriva dei continenti al batterio dell’ulcera, in cui la maggioranza degli scienziati aveva semplicemente torto.
È anche un dilemma etico. In qualità di organizzazioni scettiche abbiamo la responsabilità di proporci come fonti di informazioni obiettive e controllate, nelle quali il nostro pubblico ripone fiducia, ma il “fuffometro” di Sagan è uno strumento troppo poco oggettivo per soppesare le teorie scientifiche come quella del riscaldamento globale. Chi tende a essere critico verso gli ambientalisti troverà che il fuffometro fa suonare un campanello di allarme sulle argomentazioni a loro favorevoli, ma lo stesso accadrà con le tesi contrarie a chi invece è più diffidente nei confronti di queste ultime. È una valutazione troppo qualitativa per poterne tenere fuori i nostri pregiudizi e dobbiamo stare attenti a non scambiare per fatti accertati nostre opinioni non qualificate. D’altra parte non possiamo nemmeno cavarcela evitando di affrontare gli argomenti scottanti. Che cosa dobbiamo fare?
Se n’è occupato qualche tempo fa su skepticblog Daniel Loxton, il direttore di Skeptic Junior, proponendo alcune regole empiriche che possono servirci a capire quando è opportuno fare gli indagatori e quando i divulgatori[1]. Le riassumiamo e adattiamo qui:
1) Quando un argomento pseudoscientifico o paranormale non è oggetto di studio accademico, gli scettici sono gli esperti principali: possiamo fare un vero e proprio lavoro di ricerca originale e mettere i nostri risultati a disposizione di tutti. È il caso degli UFO, dell’astrologia, dei cerchi nel grano, e di tutti gli esempi “classici” di affermazioni sul paranormale. In questi campi il nostro compito, importante e riconosciuto dai media, è fare le indagini rigorose che non fa nessun altro: gli scienziati perché non se ne interessano, gli appassionati perché non sanno usare il metodo scientifico. Occasionalmente possiamo anche aiutare gli scienziati a non prendere cantonate, come mostra l’esempio del progetto Alpha di James Randi.
2) Quando l’argomento è oggetto di interesse accademico e c’è consenso scientifico, ma anche una frangia pseudoscientifica o “negazionista”, il nostro contributo può essere prezioso. È il caso dell’Intelligent Design, delle teorie alternative sull’AIDS e così via. In questo caso, ci sono due tipi distinti di competenze: la conoscenza delle pseudoscienze, che è il nostro campo specifico, e la conoscenza della letteratura scientifica che le smentisce, settore nel quale tipicamente non siamo esperti e dobbiamo limitarci a riferire lo stato dell’arte. Anche in questo caso possiamo insegnare qualcosa agli scienziati. Se prendiamo come esempio l’Intelligent Design, i biologi evoluzionisti che non conoscono a fondo il modo di argomentare degli pseudoscienziati rischiano di trovarsi in difficoltà nei dibattiti pubblici, e la nostra competenza specifica è molto utile; ma non per questo possiamo sostituirci ai biologi nello spiegare la teoria dell’evoluzione, che non è - generalmente - il nostro campo.
3) Quando la discussione si svolge sul piano degli studi scientifici, sia che abbia raggiunto un consenso sufficiente sia che sia ancora aperta, il nostro compito è proprio quello di fare divulgazione, non quello di prendere posizione in qualità di scettici. È il caso, per esempio, del riscaldamento globale. Anni di esperienza nell’indagare le affermazioni sul paranormale (punto 1) possono illuderci di saper individuare immediatamente le tesi scientificamente infondate in qualsiasi altro campo. Ma nei settori specialistici di ricerca esprimere un parere qualificato presuppone competenze professionali di alto livello, che richiedono anni di studi e che non si possono acquisire con la lettura di qualche testo divulgativo. Se abbiamo queste competenze, dovremmo argomentare nella sede opportuna della letteratura scientifica peer-reviewed e non fare appelli sulla stampa popolare (scettica). Se non le abbiamo, non dobbiamo sfruttare il ruolo pubblico di scettici per promuovere le nostre opinioni personali non qualificate. Dobbiamo resistere alla tentazione di usare il “fuffometro” come scorciatoia per trovare una risposta definitiva a temi così complessi e dobbiamo limitarci a riferire il consenso della comunità scientifica. Questo non significa rinunciare alla nostra vocazione critica, ma riconoscere che nel caso in esame non abbiamo gli strumenti necessari per esercitarla.
Indagatori o divulgatori, quindi? La nostra collocazione unica a cavallo tra scienza e pseudoscienza ci impone di saper interpretare entrambi i ruoli, scegliendo quello corretto in funzione delle nostre competenze specifiche e dei nostri limiti. Nel mondo dello scetticismo c’è spazio sia per gli ammiratori di Randi e Nickell, sia per quelli di Dawkins e Shermer.