Il ritorno della fenice

Mentre scrivo, ho qui accanto a me una piuma di fenice. Sfortunatamente non me ne deriva alcun potere taumaturgico, al di là del godimento della intrinseca bellezza dell’oggetto. Cerchiamo però di capire di che si tratta, e come io sia potuta arrivare in possesso di un simile, prezioso, oggetto.

Quello della fenice, l’uccello immortale che risorge in cicli, associato al sole e alla resurrezione, è un mito ricorrente in moltissime culture umane, in Cina, India, Giappone, Russia, America centrale, Persia e diverse altre ancora. Non c’è da scomodare, a mio avviso, nessun mito ancestrale per spiegare questa costante e diffusa associazione uccello-sole-resurrezione: il canto degli uccelli all’alba, quando il sole “risorge”, è udibile un po’ dappertutto, poi si tratta solo di trovare un uccello che degnamente rappresenti l’evento, in base alla biogeografia della zona.

Nel mondo occidentale il mito della fenice deriva dagli antichi Egizi, portato in Grecia, e di conseguenza a Roma, da Erodoto, che aveva viaggiato in Egitto e che era un po’ il David Attemborough dell’epoca. Ecco come descrisse lo straordinario volatile:

«C'è anche un altro uccello sacro, che ha nome fenice. Io per parte mia non l'ho visto se non dipinto, ché assai raramente appare tra loro, a quanto dicono gli Eliopolitani, ogni 500 anni; cioè quando gli muore il padre. Orbene, se è somigliante al dipinto, è di queste dimensioni e aspetto: alcune delle penne sono dorate, altre rosse; in complesso per forma e grandezza è assai simile a un'aquila. Si racconta che la fenice riesca a compiere questa impresa (però a mio parere dicono cose certo non degne di fede): partendo dall'Arabia, essa trasporterebbe nel tempio di Helios il padre, dopo averlo spalmato di mirra e lì lo seppellirebbe trasportandolo nel modo seguente: dapprima foggia un uovo di mirra grande quanto è in grado di portare, poi si prova a portarlo, e fatta la prova allora, svuotato l'interno dell'uovo, vi pone dentro il padre, e con l'altra mirra spalma quella parte dell'uovo dove, dopo averlo svuotato, ha posto il padre, in modo che l'uovo raggiunga lo stesso peso. Dopo averlo così avvolto lo trasporta in Egitto nel santuario di Helios. Questo affermano faccia la fenice”[1].

Quindi fondamentalmente Erodoto parla per sentito dire, un fatto da tenere in conto per capire di che uccello si tratta. Ignoreremo la storia del padre posto dentro l’uovo, anche perché se no occorrerebbe pensare a partenogenesi maschile, visto che di fenice ce ne sarebbe solo una alla volta. Il mito del fuoco che rigenera l’animale invece ci deriva da Plinio il Vecchio.

Alla base del mito della fenice, e/o incrociato con questo, vi è quello del Bennu egiziano, un uccello che si è evoluto nel tempo. Si tratta del mito comune uccello-sole-resurrezione, quindi può essersi evoluto parallelamente o essere più probabilmente il frutto di contaminazioni e incroci di più storie simili indipendenti. In tempi remoti il Bennu era descritto come una cutrettola (Motacilla flava), un piccolo passeriforme dal piumaggio del ventre color giallo dorato. A partire dal Nuovo Regno (3500 anni fa), tuttavia, la cutrettola diventò un airone. Dai dipinti sulle tombe, il Bennu sembrerebbe un airone cinerino, ma potrebbe in realtà anche trattarsi di una specie estinta di airone. In una tomba nel sito archeologico di Umm AI Nar, vicino ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, è stato trovato lo scheletro di un airone gigante, alto almeno due metri, risalente a circa 4500 anni fa, e chiamato non casualmente dai paleontologi Ardea bennuides. Questo spiegerebbe l’associazione con l’Arabia e la rarità del bennu/fenice. Sfortunatamente non si ha idea del colore del suo piumaggio, ma se è quello raffigurato dagli Egizi era bianco e grigio, e quindi non è l’uccello di cui Erodoto vide il dipinto.

In ogni caso, né la cutrettola né l’airone hanno piume rosse o somigliano a un’aquila. Ci serve un uccello con le piume rosse, con una qualche caratteristica da aquila, che ami il caldo, se proprio non il fuoco, che amasse posarsi su strutture coniche (la fenice si costruiva un nido a piramide fatto di spezie e aromi, per la sua autocombustione, e a Heliopolis posava l’uovo su una roccia sacra piramidale, il benben) e che fosse raro nel bacino del Mediterraneo all’epoca.

Un animale che risponde in modo quasi perfetto alla descrizione, padre nell’uovo a parte, esiste. E in italiano non bisogna neanche fare uno sforzo di fantasia per immaginarne il nome, in quanto si tratta del… fenicottero. Sebbene questi ultimi manchino di piume dorate (salvo al tramonto, quando il sole basso viene riflesso dal bianco del collo), sia i fenicotteri che le Fenici derivano il proprio nome dalla parola greca che indica il rosso porpora o il cremisi, phoinix, e da cui deriva anche il nome dei fenici, che conoscevano il segreto per estrarre la porpora da conchiglie puzzolenti, ma questa è un’altra storia.

Il piumaggio dei fenicotteri è rosa, screziato da piume rosse o porpora e nere. Il becco dei fenicotteri è possente e ricurvo verso il basso, come quello delle aquile (ricordiamo che Erodoto aveva visto un dipinto, non un documentario del National Geographic). Il pulcino dei fenicotteri, sino a circa due anni, è color grigio cenere, e col piumino arruffato della nascita sembra appena venuto fuori da un focolare. I fenicotteri sono molto longevi. Un esemplare portato in uno zoo australiano già adulto vi è vissuto per 81 anni, quindi alla morte aveva minimo 83 anni, ma non si ha idea di quanto possano vivere questi animali. I fenicotteri amano le acque basse e molto calde, e la fenice (e il Bennu) erano soliti risiedere in Arabia presso un pozzo. In Africa orientale la temperatura dei banchi di sabbia e fango su cui nidificano può raggiungere i sessanta gradi, sulle sponde di laghi alcalini (con un pH anche di 12, praticamente è soda caustica) e/o salatissimi. Per evitare l’uovo alla coque, mamma fenicottero costruisce una montagnola di fango piramidale su cui deporre il suo unico uovo, che ricorda bene la descrizione del benben primevo, costruito da Atum, nei Testi delle Piramidi. Il caldo delle pozze inabitabili amate dai fenicotteri genera correnti convettive di vapori sulla superficie, che ricordano un fumo. Inoltre, per via dell’elevata salinità, l’acqua delle marcite salate è di color rosa o viola, a causa della presenza di un archeobatterio che usa il sale per trarre energia, e che colora le acque in sfumature di porpora con un pigmento chiamato rodopsina.

Un match quasi perfetto, se non fosse per un dettaglio: i fenicotteri oggi vivono nel bacino del Mediterraneo ed Erodoto e Plinio avrebbero dovuto conoscerli. I Romani, del resto, erano ghiotti di lingue di fenicottero, e ne usavano le penne per indurre il vomito e continuare a banchettare per giorni. Tuttavia i Romani importavano moltissimi animali esotici dai quattro angoli dell’impero e oltre, e non è detto che ne conoscessero l’aspetto. Plinio (X,2) modifica notevolmente la descrizione di Erodoto aggiungendo dettagli: la fenice avrebbe un piumaggio dorato intorno al collo, mentre il resto del corpo è color porpora, tranne la coda, che è azzurra, con lunghe piume con una sfumatura rosata. La gola è adornata da una cresta e il capo da un ciuffo di penne. Cuvier identificò in questa descrizione il fagiano dorato della Cina, Chrysolophus pictus, che è molto più colorato di quel che sostiene Plinio, ma può certamente aver fornito un contributo all’immagine della fenice mitologica.

La spiegazione è in un dettaglio importante: l’areale dei fenicotteri è al momento in forte espansione verso nord, per via dei cambiamenti climatici, e sono una delle poche specie che si sta nettamente avvantaggiando del riscaldamento globale. Duemila anni fa sarebbe stato impensabile avere colonie di animali tropicali come i fenicotteri lungo il Mediterraneo, troppo freddo all’epoca, ed è quindi assolutamente normale che in Grecia e a Roma giungessero solo voci non confermate di questi “uccelli di fuoco” mentre a Heliopolis, ora un quartiere del Cairo, subito prima del delta del Nilo, dove l’acqua è dolce, non giungesse più del raro giovane in dispersione dal sud, occasionalmente.

La fenice sta tornando quindi a risorgere dal fuoco, o almeno dal global warming. Possiamo ancora godere dell’orribile canto gracchiante di questi animali, che nessun naturalista di epoca classica ha mai visto mangiare, in quanto filtrano microrganismi col loro possente “becco d’aquila”. Per vederli, e per avere la fortuna di venire in possesso di una delle loro piume, come è successo a me, è sufficiente visitare l’isola di Montelargius in Sardegna, dove sono arrivati nel 1993, le valli di Comacchio, le Saline di Margherita di Savoia in Puglia, la laguna di Orbetello in Toscana, e molte altre zone del Mediterraneo.

Note

1) Erodoto, Storie, Daniela Fausti (a cura di), Augusta Izzo D'Accinni (trad. it), Milano 1984, BUR, Volume I


accessToken: '2206040148.1677ed0.0fda6df7e8ad4d22abe321c59edeb25f',