Meraviglie dell'Estremo Oriente e analisi scientifiche

  • In Articoli
  • 13-04-2012
  • di Roberto Labanti
Fino a oltre la metà del secolo scorso, non era raro che giungessero in Occidente dal più o meno lontano esotico Oriente, vero o presunto che fosse, oggetti ed artefatti che, in altre epoche, si sarebbero definiti meraviglie: per stupire le masse, trasferire denaro dalle tasche dei ricchi collezionisti a quelle dei mediatori, o, a volte, attirare l’interesse degli uomini di scienza. Alcuni di questi oggetti sono sopravvissuti e sono oggi conservati in collezioni pubbliche o private, dove ancora incuriosiscono i più smaliziati visitatori contemporanei. Anche per rispondere alle domande del pubblico, capita allora che siano sottoposti a indagini scientifiche volte a chiarirne origine e natura. Recentemente, due di questi oggetti, entrambi oggi su suolo britannico, sono quindi finiti sotto la lente degli scienziati, con risultati interessanti.

Un esemplare di un affermato “pesce-scimmia giapponese” fu acquistato dalla Wellcome Collection nel 1919 ed è conservato dal 1982 presso l’Horniman Museum di Londra, dove è noto affettuosamente come Herman. Si tratta di uno di quegli orridi artefatti orientali presentati come sirene mummificate che iniziarono ad apparire in Occidente nei primi decenni del diciannovesimo secolo. Divennero meraviglie da mostrare in esibizioni pubbliche itineranti, come la cosiddetta “Sirena delle Fiji”, forse composta dalla parte superiore di un giovane primate e dalla parte inferiore di un pesce, in possesso del notissimo P. T. Barnum, “il principe degli imbroglioni”. E Herman? Era forse stato costruito allo stesso modo? Per rispondere a questa domanda lo si è quindi sottoposto a una serie di esami come la tomografia computerizzata, con risultati che hanno forse sorpreso il curatore della collezione di storia naturale del museo, Paolo Viscardi. La testa è in realtà composta di fasci di fibre avvolti intorno ad un bastoncino di legno e ricoperti d’argilla, con cartapesta utilizzata per realizzare la “pelle” esterna e i dettagli. Le ganasce di un pesce completano la parte superiore. Il corpo è formato da un supporto ligneo e metallico con avvolti intorno, anche in questo caso, fasci di fibre ricoperti d’argilla e cartapesta. Gli arti superiori, che terminano con gli artigli di un probabile pollo, hanno origine da un pezzo di legno inchiodato al torso e sono dovuti a fili ricoperti da cartapesta. La coda, infine, è, in effetti, quella di un pesce, anche se modificata all’uopo. Gli esami del DNA sui campioni delle parti d’origine biologica sono in corso presso la Goethe-Universität: permetteranno di identificare con precisione le specie coinvolte e, forse, l’area di produzione[1].

Dal presunto Giappone, spostiamoci all’est del Nepal. Nel monastero di Pangboche, sorto nel XVI secolo a circa 4000 m s.l.m., i lama - monaci buddisti - erano soliti mostrare, in cambio di una donazione, alcune reliquie attribuite a uno yeti: una mano e un supposto cuoio capelluto. I reperti furono purtroppo rubati nel 1992. Presso però il Royal College of Surgeons’ Hunterian Museum di Londra, proveniente dalla collezione privata di un primatologo che nell’ultima parte della sua carriera fu attivo anche presso l’Università di Torino, William Charles Osman Hill (1901-1975), è conservato un pollice che, durante una spedizione sulle tracce dello yeti, l’esploratore Peter C. Byrne rimosse, in un modo che eufemisticamente si potrebbe definire non troppo limpido, dalla mano mummificata all’inizio del 1959. Riscoperto il reperto durante il riordino della raccolta nel 2008, il museo ha autorizzato il prelievo di un campione per farlo sottoporre al test del DNA. Quest’ultimo, eseguito da Rob Ogden della Zoological Society of Scotland e collaboratori, ha dimostrato quello che i ricercatori in realtà già si attendevano: il DNA è umano e secondo Ogden, interpellato dalla BBC, «è molto simile a sequenze umane provenienti dalla Cina o comunque di quella regione dell'Asia». Forse, chissà, l’arto venerato era quello di un lama del passato, di cui si è persa la storia, sostituita dalla narrazione sulla strana creatura tanto cercata dagli occidentali. Comunque sia, c’è chi suggerisce che il resto umano sia restituito al monastero di provenienza anche come parziale risarcimento per il successivo furto da esso subito, probabilmente non indipendente dalla fama ottenuta grazie alla letteratura criptozoologica[2].

Si tratta certamente di esempi di diverso peso: la natura artificiale di Herman non è mai stata seriamente messa in discussione, mentre l’altro reperto avrebbe potuto essere la prova dell’esistenza di una specie non ancora classificata. Comunque sia, ci hanno permesso di gettare lo sguardo sull’applicazione di tecniche forensi per disvelare i misteri di meraviglie di un altro spazio e di un altro tempo.

Note

1) Unmasking the mysterious merman (s.d.). Horniman Museum & Gardens Collections, disponibile all'url http://www.horniman.ac.uk/collections/unmasking-the-mysterious-merman ; Sharp, Rob (March 22, 2011). Horniman’s “merman” is papier-mâché fake. Arts - News, notes and quotes on the Arts world - The Indipendent Blogs, disponibile all’url http://blogs.independent.co.uk/2011/03/22/hornimans-merman-is-papier-mache-fake/
2) Tracing the origins of a 'yeti's finger' (2011, December 27). BBC News, disponibile all'url http://www.bbc.co.uk/news/science-environment-16264752


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