Occhio alla trappola

«I risultati attuali della scienza portano decisamente a Dio».[1]

Sembra di sentire le parole del reverendo Wiliam Paley, arcidiacono di Carlisle nell’Inghilterra di fine Settecento, per il quale la dimostrazione dell’esistenza di Dio era la Natura stessa, con la propria magnificenza. Ma a parlare non è il curato inglese autore di quella Teologia Naturale sul quale studierà anche Darwin, bensì un biochimico dei giorni nostri, professore all’Università di Leigh, Michael Behe.

Nel suo best-seller del 1996, Darwin’s Black Box, Behe afferma, riprendendo l’argomento dell’orologiaio di Paley:

«Ci sono sistemi che sono composti da molteplici parti che interagiscono tra di loro conferendo al sistema una determinata funzione. La rimozione di una qualsiasi di queste parti provoca la perdita di funzionalità del sistema».[2]

Ma cosa si intende concretamente quando si parla di complessità irriducibile dei sistemi biologici? Usiamo di nuovo le parole di Behe che, intervistato da Avvenire, afferma con slancio divulgativo: «Pensiamo a una semplice trappola meccanica per topi. La sua complessità è irriducibile perché, se fosse più semplice, sarebbe inservibile. [.] La macchina cellulare in questo è simile a una trappola per topi: ha bisogno di molte parti per funzionare».[3]

Chiunque abbia mai avuto a che fare con una trappola per topi non può che convenire con Behe: ogni componente (dalla molla al formaggio) è indispensabile per il suo funzionamento.

Dalla trappola per topi alle strutture biologiche il salto è breve. Provate, infatti, a pensare, tenendo sempre a mente l’esempio della trappola, a una struttura come l’occhio. Come può un occhio funzionare senza alcune delle sue componenti? O, come affermano spesso i sostenitori dell’Intelligent Design, «a cosa serve mezzo occhio?».

Già, a cosa serve? A niente. Hanno ragione, ma per il motivo sbagliato.

Una trappola per topi è un congegno artificiale, progettato con lo scopo preciso di catturare i topi. L’occhio, il flagello, le proteine, eccetera, sono strutture naturali che non è detto abbiano avuto sempre la stessa funzione nel corso dell’evoluzione, senza contare che spesso le strutture biologiche presentano tratti ridondanti, cioè diverse parti che svolgono la stessa funzione.

Anche il gatto è stato progettato per catturare topi? Ai nostri occhi la trappola e il gatto svolgono una funzione simile: servono a salvare le dispense controllando la popolazione dei topi nelle nostre città e campagne. Un gatto non è irriducibilmente complesso, ha molte parti superflue al fine della cattura del topo, gli si può tagliare la coda, rasare il pelo, bendare un occhio o legare una zampa, ma continuerà lo stesso a catturare i topi (oltre che a far le fusa, miagolare, eccetera). Quando ci viene chiesto di scegliere chi, tra il gatto e la trappola, è opera di un progetto, rispondiamo senza nemmeno pensarci, che sì, è decisamente la trappola. Il gatto non ha la funzione specifica di catturare topi. Lo fa, ma non è nato per quello e lo può fare anche se non è nelle sue condizioni ottimali.

Non sempre, però, l’evidenza salta agli occhi, soprattutto man mano che ci si allontana dalla realtà di tutti i giorni: tutti hanno idea di cosa possa succedere a un gatto senza coda, occhio o zampa, ma quasi nessuno (se non alcuni biologi) ha idea di cosa possa succedere a un flagello o a una proteina generica senza alcune parti, e quindi è più difficile accorgersi di quanto siano strampalati la semplificazione estrema e il paragone con una struttura artificiale.[4]

Il nostro cervello ci porta a dare un senso alle cose. È il meccanismo che chi si occupa di illusioni ottiche chiama "pareidolia": nel caos (una nuvola, una macchia) tendiamo a vedere forme e immagini note. In questo caso, una struttura biologica come il flagello dei batteri, della quale non abbiamo esperienza diretta, viene associata a ciò che nella nostra realtà gli assomiglia di più: una turbina, un motore, cioè una struttura artificiale che è il risultato di un progetto.

Quindi, il salto dalla trappola per topi alle strutture biologiche è breve, ma è sbagliato. Ma c’è un altro motivo per cui Behe e colleghi sbagliano.

Accettiamo per un attimo il paragone che ci propongono. La trappola per topi è effettivamente irriducibile e complessa, ma se ragioniamo in termini sottrattivi (cioè pensando di togliere alcune parti) commettiamo un errore, perché ci muoviamo nella direzione opposta a quella in cui si sono sviluppati gli organismi naturali.

Behe, sempre all’Avvenire, dichiara: «è quindi difficile immaginare in che modo - secondo la prospettiva darwiniana - sia possibile costruirla trappola per topi aggiungendo un pezzo alla volta».

Per esaminare questo problema, John McDonald, un biologo dell’Università del Delaware, al motto «il fatto che un evento sia difficile da immaginare non lo rende impossibile», ha ricostruito l’ipotetica storia evolutiva di una trappola per topi. Si parte con un singolo pezzo di metallo a molla, che «posizionato nel modo giusto e, con un po’ di fortuna, riesce a intrappolare il topo» e per piccole aggiunte successive in una quindicina di stadi si arriva ad avere una trappola per topi così come la conosciamo oggi. Tutte le trappole intermedie prendono topi. Certo, le prime non sono efficienti come le ultime, ma «meglio avere una trappola non efficiente che nessuna trappola».[5]

L’occhio dei mammiferi si è evoluto a partire da una singola cellula fotosensibile (che, come la prima trappola di McDonald, è meglio di niente) attraverso un processo graduale di mutazioni, aggiunte, selezioni per arrivare alla struttura "complessa" che ci permette di vedere.6 Il processo biologico non è così semplice come quello proposto da McDonald, perché l’evoluzione non opera per aggiunte selettive di pezzi funzionali, ma produce una notevole quantità di varianti (attraverso le mutazioni) che vengono selezionate e trasmesse alle generazioni successive. Dal punto di vista evoluzionistico, a partire dalla trappola per topi primordiale, si sarebbero potute generare decine di trappole tutte diverse e funzionali, ma anche altre strutture, usate per un po’ come trappole e poi convertite in qualcos’altro a seconda dell’esigenza.
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Non solo, le scoperte della biologia molecolare degli ultimi anni ci hanno permesso di comprendere anche i meccanismi genetici e biochimici che portano alla formazione di un occhio. Oggi sappiamo che alcuni geni (chiamati pax) ne regolano lo sviluppo e sono così simili anche in specie molto distanti evolutivamente tra loro (come il moscerino della frutta e l’uomo) da essere "intercambiabili": inserendo, infatti, nel genoma di un moscerino il gene pax umano al posto del suo, il moscerino svilupperà un occhio perfettamente funzionante. [6], [7]
Tralasciando le questioni filosofiche sulla natura delle argomentazioni di Behe, siamo davvero sicuri che questi risultati, i risultati della scienza, portino decisamente a Dio?

B.M.
1) Michael Behe, intervistato da Avvenire, "Darwin nella trappola per topi", 29 settembre 2005
2) Michael Behe (1996), Darwin’s Black Box: a Biochemical Challenge to Evolution, New York: Free Press.
3) L’esempio del gatto è di un anonimo autore di Wikipedia, rintracciabile alla pagina: http://en.wikipedia.org/wiki/Irreducible_Complexity
5) Halder G., Callaerts P., Gehring W.J. (1995), "New perspectives on eye evolution", in Curr. Opin. Genet. Dev. 5, pp. 602-609.
6) Halder G., Callaerts P., Gehring W.J. (1995), "Induction of ectopic eyes by targeted expression of the eyeless gene in Drosophila", in Science 267, pp. 1788-1792.
7) Behe, in Darwin’s Black Box, accanto all’occhio, cita come esempi di complessità irriducibile il flagello che permette il movimento di alcuni batteri e il sistema dei fattori di coagulazione del sangue.
http://en.wikipedia.org/wiki/Evolution_of_flagella
www.talkorigins.org/origins/postmonth/feb97.html
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