Crypto (recensione)

di Dan Brown
Mondadori, 2006
pp. 427, E 18,60

  • In Articoli
  • 05-08-2007
  • di Piergiorgio Odifreddi
Crypto, l'ultimo romanzo di Dan Brown a uscire sul mercato italiano, ha per protagonista la Nsa, l'Agenzia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, che fa esattamente le cose che il libro racconta, almeno secondo le rivelazioni del dicembre 2005 del New York Times, e cioè spiare illegalmente le comunicazioni dei cittadini con la scusa della sicurezza e del terrorismo. L'impianto politico del libro è dunque plausibile, ma non lo sono i dettagli tecnici e scientifici che Dan Brown spruzza come il prezzemolo nei suoi romanzi, questo compreso.
In particolare, stride il divario fra le fumose allusioni ai massimi sistemi crittografici che i protagonisti del romanzo scambiano fra di loro e i minimi trucchi che l'autore costringe a mettere in pratica, già noti agli imperatori romani e per questo chiamati appunti "codici cesarei" (per esempio, sostituire ogni lettera di una parola con quella successiva dell'alfabeto in modo da renderle a prima vista senza senso). Brown snocciola qua e là sigle che ha orecchiato, ma di cui evidentemente non conosce il significato, scambiando per esempio per metodi di codifica cose tanto diverse fra di loro come il protocollo Diffie-Hellmann per lo scambio di chiavi (ovvero insiemi di lettere, numeri e simboli; per capirci, qualche cosa di simile a un codice PIN o a una password), il formato Zip di compressione dei file, e il programma Pgp di sicurezza della posta elettronica.
In matematica poi Brown è un vero asino, nonostante suo padre la insegnasse. Ad esempio, presentando la macchina attorno alla quale ruota l'intera vicenda, dice che i suoi processori esaminano 100 miliardi di chiavi all'ora, e dunque le bastano dieci minuti per identificare una chiave di 64 bit: cosa impossibile, visto che tutte le possibili combinazioni delle chiavi con 64 bit sono circa 18 miliardi di miliardi. Anche nel presentare le dimensioni di uno stanzone sotterraneo sbaglia completamente i conti, dicendo che su una parete c'è uno schermo 10x12 metri, e che per costruirla sono state estratte 250 tonnellate di terra. Siccome una tonnellata di terra equivale più o meno a un metro cubo, questo vorrebbe dire che la stanza ha un volume di circa 250 metri cubi. Il che, considerata l'area della parete che contiene lo schermo (almeno 120 metri quadri), significa che la sua profondità dovrebbe essere appena due metri: provate a immaginare la sala di un cinema con una sola fila di poltrone.
Nemmeno in storia Brown sembra essere molto ferrato, se crede che la macchina Enigma usata dai tedeschi per crittografare i loro ordini militari, che era una sorta di macchina per scrivere portatile pesante dodici chili, fosse un bestione da dodici tonnellate. E, soprattutto, se immagina che la bomba atomica di Nagasaki fosse costituita da uranio 238 costruito artificialmente, quando l'intera storia della fissione nucleare si basa appunto sul fatto che questo isotopo, essendo stabile, si trova in natura ma non è esplosivo: per questo motivo, la bomba di Hiroshima era all'uranio 235. In ogni caso, la bomba di Nagasaki era al plutonio 239, e non all'uranio, e dunque l'intero finale del libro è basato su un fraintendimento.
Quanto può vendere un libro raffazzonato in tal modo, se è fortunato? Diciamo diecimila copie, che sono appunto quelle che ha venduto quand'è uscito nel 1998 in America. Ma ora che così tanta gente si è appassionata per i romanzi successivi, in cui Dan Brown ha esibito conoscenze tecniche più o meno analoghe, ne venderà milioni: il che dimostra che i numeri della letteratura non sono gli stessi di quelli della matematica.

Articolo pubblicato su Vanity Fair del 27 luglio 2006. Riprodotto per gentile concessione dell'autore.
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